3 gennaio 2015

Il "Nuovo Realismo" e l'antidoto: normalizzare la filosofia




Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 3 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini, con ampie citazioni dal testo originale.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post aggiungo, in grassetto, il sommario del capitolo 3 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dal testo originale.
G.N.



Il “nuovo realismo” lanciato da Ferraris si contrappone a un fantomatico nemico: un filosofo (o addirittura un’intera massa di filosofi) che affermerebbe che la realtà è modificabile a piacimento, dato che è costruita da noi stessi. Chi ha mai sostenuto questo? Secondo Ferraris si tratta di una posizione ascrivibile ai sostenitori del “pensiero debole”, all’ermeneutica, e se ne può rintracciare l’origine in Kant. Vattimo e Rovatti, che si sono sentiti chiamati in causa, hanno replicato a Ferraris negando questa immagine di Antirealista Confuso che si sono visti appiccicare addosso, ma ciò non è bastato a convincere Ferraris di avere sbagliato obiettivo.
     Se qualcuno sostiene che i fatti sono modificabili o “emendabili” sicuramente non si riferisce a fatti passati (sarebbe assurdo): probabilmente sta parlando del fatto che attraverso le nostre azioni noi, anche se in misura minima o marginale, produciamo un cambiamento nel mondo. Noi tutti agiamo perché la realtà è, almeno in parte e per certi aspetti, modificabile seguendo adeguate procedure basate su adeguate conoscenze su come la realtà stessa è strutturata.
Ma Ferraris, che risponde al fantomatico nemico sostenendo che la caratteristica principale dei fatti è quella di essere “inemendabili”, si è proprio inventato tutto? Non c’era nessun problema da risolvere? Abbiamo già visto che ci sono state importanti domande riguardo alla realtà e al nostro rapporto con essa (che però non riguardano la presunta esistenza di sole interpretazioni…). Ed è vero che si è creata una specie di ostilità, fra tardo Ottocento e Novecento, nei confronti dei concetti di realtà e di verità. Abbiamo visto nel capitolo precedente che c’è stata una specie di confluenza di entrambe le tradizioni – analitica e continentale – verso un atteggiamento anti-metafisico.
Secondo Franca D’Agostini questo è stato un serio problema per la filosofia, perché l’ha portata lontano dal suo compito originario e fondamentale. Inoltre è convinta «che una riconsiderazione dei problemi metafisici sia importante per la vita pubblica». D’Agostini avrebbe quindi auspicato una riaffermazione del realismo, inteso come riaffermazione dell’interesse metafisico verso la realtà, ma si è trovata in grave imbarazzo di fronte al “nuovo realismo” targato Ferraris, che le impediva (di fatto) di comunicare le sue posizioni riempiendo la scena filosofica con un “realismo” confuso e confondente, che aveva ben poco di metafisico: «perché mai sarebbe “realismo” il semicostruzionismo difeso da Ferraris (non tutto è costruzione, non tutto è interpretazione): una ragionevolissima posizione, ma epistemologica e non metafisica, e tutto sommato già nota a chiunque?». Da qui la necessità di intervenire nella scena dominata dal “nuovo realismo”, mostrando i fraintendimenti, i falsi nemici, i veri problemi lasciati senza risposta e le risposte a domande che nessuno ha mai posto.
I problemi reali della filosofia contemporanea, a cui il “nuovo realismo” di Ferraris non risponde, risalgono al tardo Ottocento, al nichilismo come «crisi di crescita della democrazia», a cui abbiamo già accennato. La filosofia ha reagito alla propria crisi, dovuta alla specializzazione scientifica, specializzandosi essa stessa (processo avviato dalla tradizione analitica), ma questa strada non è stata percorsa in modo unitario né con consapevolezza, e sono rimasti molti dubbi e perplessità sul suo compito e sul suo ruolo nel rapporto con la vita pubblica. 
Un modo per uscire da questi dubbi sarebbe quello di normalizzare la filosofia, cioè

incominciare a considerarla come una scienza come qualsiasi altra, benché dotata di sue caratteristiche specifiche. In effetti io penso che il primo problema stia qui. Più propriamente: nel fatto che la filosofia non è concepita come una scienza normale, e la “scienza normale” si è descritta a lungo come antifilosofica. Di qui quella visione enfatica della filosofia (un misto di avversione e ammirazione esagerata) che è alla base del lavoro di Nietzsche, e di molti suoi lettori se non seguaci. In Nietzsche c’era una strana e nevrotica antipatia nei confronti dei filosofi, unita alla sua pretesa di essere un grande filosofo. Entrambe (antipatia e pretesa) sono entrate nei cervelli di chi l’ha preso sul serio, senza ricordare che Nietzsche era un affascinante scrittore, ma forse di filosofia non ne sapeva granché. [È questo forse il passaggio dove F. D’A. è più esplicita nella sua stroncatura della figura di Nietzsche; nello stesso capitolo, parlando di fraintendimenti, scrive che «Nietzsche […], leggendo affrettatamente Schopenhauer, interpreta il kantismo come antirealismo metafisico (una versione che Ferraris si ostina a considerare canonica)».]

Occorre quindi pensare alla filosofia come a una scienza qualsiasi, e alla scienza come «la ricerca umana di oggettività», esposta alla possibilità di errori.
                    [Riporto qui un passo di questo capitolo che è stato tagliato nella versione pubblicata (D’Agostini ha messo a disposizione nel blog “Filosofia pubblica” l’intero capitolo 3 nella sua versione originaria), perché mi sembrano particolarmente interessanti le osservazioni sulla responsabilità di Hegel nella mancata normalizzazione della filosofia:«Non voglio qui entrare in dettaglio su come ciò avvenga (ne ho parlato fin troppo, in altre sedi), mi limito solo a fissare alcune idee.Come qualsiasi scienza la filosofia ha una sua specificità, che va precisata. Naturalmente, se finite con il dire che le caratteristiche della filosofia consistono: 1. nell’essere un’impresa eroica e sensazionale, oppure 2. nel non essere una scienza, oppure 3. nell’essere una pseudo-scienza, oppure 4. nell’essere la regina delle scienze, allora siamo daccapo. Nei casi 1 e 2 non c’è più alcun controllo sulle tesi filosofiche, e qualsiasi enfatico guastatore dei giochi e manipolatore sofista può passare per formidabile pensatore (ed è facile che lo diventi, nella confusione comunicativa a cui provvedono i vecchi e nuovi media). Nel caso 3, siamo di fronte all’antifilosofo a priori, l’ignorante di filosofia che prova fastidio o invidia del prestigio a volte goduto dalla disciplina (per via del diffondersi delle teorie di tipo 1), oppure al mezzo-filosofo (di solito cultore di altre discipline) che ha un’idea vaga della filosofia, e si stanca subito di studiarla. Nel caso 4, siamo di fronte notoriamente all’errore dell’hegelismo, su cui c’è molto da dire, qui mi limito a osservare che il danno fu grandissimo, perché Hegel fu un raffinato metafilosofo, e se c’era una speranza di normalizzare la filosofia, era proprio a partire da lui.»]

Riconosciuta l’esigenza urgente di normalizzazione della filosofia, resta ancora, oltre al problema di riconoscere la radice umana e filosofica dell’impresa scientifica, il problema dell’attuale inesistenza della “filosofia prima”, cioè quella parte preliminare della filosofia che si occupa di verità e di essere o realtà (si veda la Metafisica di Aristotele). Questa parte della filosofia è oggi sviluppata in modo frammentario: un pezzo nell’epistemologia, un pezzo nella logica filosofica, un pezzo nell’ontologia. I problemi urgenti che la filosofia deve affrontare sono

questioni minimali, elementari, che riguardano l’alfabeto del lavoro filosofico, e che non abbiamo ancora chiarito a noi stessi. Il fatto è che una serie di chiarimenti metodologici sono mancati, nella filosofia degli anni centrali del Novecento, proprio nell’epoca in cui il vasto territorio delle ricerche filosofiche stava dando a se stesso un assetto scientifico, e le competenze filosofiche stavano democraticamente diffondendosi, grazie ai media e più tardi alla “digitalizzazione”, diventando patrimonio comune e condiviso. Oggi forse le cose potrebbero migliorare. Ma la questione è ancora incerta e in sospeso. Di qui l’ipotesi che a mancarci sia proprio la filosofia prima, vale a dire gli elementi preliminari che ci servono per fare filosofia, e per sapere che cosa stiamo facendo, nel farla.

Per esempio occorre chiarirci bene le idee sul fatto che la ricerca filosofica ha sempre di mira la verità e quindi le argomentazioni filosofiche hanno obblighi veritativi come in tutte le (altre) scienze. Verità non significa che tutte le proposizioni filosofiche devono essere indiscutibili, certissime. Esistono credenze filosofiche solo probabili, o anche solo più probabili della loro negazione, come del resto esistono credenze di questo tipo anche nelle scienze naturali (accanto invece a credenze solidissime). Le procedure di fondazione di una asserto o di una teoria, sia in ambito scientifico sia in ambito filosofico, riguardano il riuscire a mostrare se e come

le tesi discusse siano allacciate sensatamente alle tesi indiscusse. […] semplicemente: proposizioni che esprimono credenze relative a stati di cose (attuali o possibili), e che danno supporto l’una all’altra. È questa la “normalizzazione” proposta dal realista Russell. E non mi sembra affatto disprezzabile. Non per nulla proprio di qui viene quello che io credo sia il vero “nuovo realismo” della filosofia contemporanea.

È questo lo “spirito della logica” da cui è rinata la metafisica; è questo il “nuovo paradigma” che si sta affermando.



Cap. 3 – Nuovo realismo e postmodernismo metodologico
La teoria italiana del «nuovo realismo» nella versione di Maurizio Ferraris è
una combinazione particolarmente ben riuscita delle manipolazioni e dei
fraintendimenti presentati nei due capitoli precedenti. Ferraris secondo Salvatore
Veca difende una forma di post-postmodernismo, con metodi e procedure
tipicamente postmoderne. Nel caso di Ferraris però occorre aggiungere qualcosa in
più. E anzitutto l’ostinazione di Ferraris nel contrapporsi a tesi e teorie che nessuno
sostiene. Per esempio la teoria secondo cui davvero non esistono fatti, o non esiste
realtà; oppure l’idea che i fatti accaduti sono “emendabili”, o che la realtà è
costruita (dunque posso buttarmi spensieratamente da un grattacielo). Chi ha
sostenuto simili teorie? Non è chiaro. Per lo più il colpevole per Ferraris è Kant,
ma esistono fondati dubbi circa il fatto che Kant abbia sostenuto qualcosa del
genere.
Nonostante ciò il “nuovo realismo” di Ferraris è stato ed è molto influente.
Perché una teoria così visibilmente discutibile è diventata canone? Il problema di
fondo credo stia nel fatto che la filosofia ritiene di non essere una scienza normale.
Una soluzione potrebbe essere normalizzare la filosofia, e in questa
normalizzazione la questione del realismo (non nel senso ferrarisiano) potrebbe
svolgere un ruolo cruciale.

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