20 dicembre 2008

Nichilismo: pericolo e salvezza

L’ultimo “Almanacco di filosofia” della rivista Micromega, dal titolo “Dio, nichilismo, democrazia”, stampato nell’ottobre 2008, è in larga parte costruito intorno alle reazioni che vari filosofi, teologi e un costituzionalista hanno avuto di fronte a un testo di Paolo Flores d’Arcais dal titolo Etica dell’ateismo. In tale testo Flores d’Arcais sostiene, in sintesi, che l’etica e la politica devono rinunciare alla religione. La fede non può essere fondamento di etica e politica, perché in quanto tale porta allo scontro fra visioni del mondo diverse ma che pretendono ciascuna di essere l’unica vera. Occorre quindi, propone Flores d’Arcais, l’ateismo metodologico, ovvero il consegnare l’eventuale fede alla sfera privata. In pratica si tratta di una difesa radicale della laicità in tutti i contesti di convivenza sociale: dalle città alla comunità internazionale. In questi termini la tesi non è particolarmente originale, ma il modo in cui Flores la sostiene contiene molti punti problematici e fecondi. Mi voglio soffermare su uno in particolare, ovvero il fatto che Flores declina in modo decisamente negativo il termine “nichilismo”, con la relativa reazione di Vattimo. Secondo Flores, che Dio esista o non esista “tutto è permesso”. O nel senso (se si crede in Dio) che si scontrano i diversi profeti, predicatori, autorità che parlano in nome di Dio (guerre di religione, crociate, scontri di civiltà, intolleranze…), o nel senso (se non si crede) che ogni morale è possibile e quindi prevale il più forte, chi ha più successo, e impera comunque la guerra. Il “tutto è permesso” è quindi condizione umana. “L’uomo è l’animale a rischio di nichilismo. (…) In altri termini: l’uomo è il creatore e signore della norma. (…) Il potere dell’uomo sulla norma è al tempo stesso il suo potere di autodisruzione.” Il nichilismo viene quindi presentato da Flores come caduta in uno stato di conflitto permanente che può arrivare all’autodistruzione della specie. Vattimo, nel suo intervento dal titolo Solo il nichilismo ci può salvare, rivendica invece una nozione positiva, o perlomeno neutra, di nichilismo. Il nichilismo, stando alla sua accezione in Nietzsche, è proprio la consapevolezza che la norma dipende solo da noi, cioè che ogni valore con pretesa di assolutezza può essere svalutato; è la fine dell’idea che ci siano valori assoluti. Ma ciò è salvifico, perché è solo questo che ci può salvare dalla tentazione di bombardare un paese perché lì non si sono ancora affermati i valori assoluti. Il nichilismo ci obbliga all’idea che sono necessari, per la convivenza civile, accordi, bilanciamenti, conciliazioni e compromessi. Siamo quindi di fronte a due modi molto diversi di intendere il concetto di nichilismo, il che sicuramente indica un problema aperto. Da una parte abbiamo la paura che la situazione di irriducibile pluralismo etico porti a violenza, a distruzione e autodistruzione. Dall’altra abbiamo la tesi che proprio la consapevolezza del pluralismo etico possa invece costringere al tener conto delle differenze e a trovare accordi di rispetto reciproco. La domanda potrebbe essere formulata in questo modo: è l’assenza di valori che porta al conflitto permanente o è l’eccessivo attaccamento ad alcuni valori considerati irrinunciabili? Il fatto che possano esistere molteplici morali (quindi nessuna sia assoluta) comporta il rischio della prevaricazione come unico criterio o porta alla costruzione responsabile di una propria morale e successivo confronto pacifico con quelle altrui? Propongo una chiave per uscire dal dilemma: la differenza fra il pluralismo etico come fatto e la consapevolezza del pluralismo etico. Una cosa è credere che non essendoci un sistema di regole universali ognuno debba pensare per sé e per il proprio gruppo di appartenenza cercando di prevalere sugli altri. Un’altra cosa è rendersi invece conto che che comunque stiamo seguendo (o dobbiamo darci) delle regole e che altri individui /altri gruppi hanno regole diverse dalle nostre, e che ciò comporta il rischio della distruzione/autodistruzione, e che si tratta allora di costruire un terreno comune, un linguaggio comune entro il quale comunicare e trovare accordi, compromessi. Il nichilismo come situazione di reale assenza di valori trascendenti, entro la quale ciascuno (individuo/gruppo/comunità) aderisce a un’etica particolare e si scontra con gli altri è altra cosa dal nichilismo inteso come consapevolezza raggiunta di tale situazione, perché tale consapevolezza ci rende uniti e uguali nella comune situazione della relatività di ogni morale. Il nichilista inconsapevole è pericoloso, è distruttivo. Il nichilista consapevole è capace di comprendere il punto di vista altrui ed è molto meno incline alla violenza rispetto al non-nichilista. Flores sostiene la necessità di fare a meno della fede, nella sfera pubblica, anche se la si ha; Vattimo sostiene la necessità di fare a meno di ogni universalismo anche se si ha fede. In conclusione: “l’ateismo metodologico” di cui parla Flores D’Arcais è forse la stessa cosa del “nichilismo salvifico” di cui parla Vattimo. Altro punto su cui mi pare concordino è che l’unica etica “universale”, il terreno comune sul quale etiche diverse possano incontrarsi e trovare accordi, non può essere che una meta-etica, un discorso etico di secondo (o terzo? o quarto?) livello… Ma questa è un’altra storia.

1 novembre 2008

L'esperienza è inoltrepassabile

A un ateo domando: come sai che al di là dei limiti dell'esperienza non c'è nulla? Non potrebbe esserci qualcosa d'altro? Qualcosa di completamente diverso, forse impensabile, inimmaginabile? Sei proprio convinto che sappiamo tutto?

A un credente domando: come sai che al di là dei limiti dell'esperienza c'è Dio? Non ti sembra che Dio sia troppo simile all'uomo (persona, con una volontà, una conoscenza, un potere... elevati al massimo grado) per essere veramente trascendente, cioè collocato oltre, al di là?

Tendiamo costantemente ad uscire dai limiti della nostra esperienza, ma ne veniamo costantemente ricacciati dentro, perché se usciamo fuori dai limiti stiamo facendo allora esperienza di questo fuori, che diventa allora un dentro...

Il trascendimento della nostra esperienza è quindi insieme impossibile ma necessario. Questa necessità sembra appartenere alla natura umana, perché in questo continuo uscire-rientrare intanto i limiti si allargano: sappiamo-immaginiamo-pensiamo sempre di più. C'è quindi crescita, evoluzione: è il modo umano di essere vivi.

(cfr., in questo blog, "Libertà come evoluzione")
(cfr. Franca D'Agostini, Logica del nichilismo, Laterza 2000)

26 ottobre 2008

Capire Hegel: la dialettica soggetto/oggetto





Capire l'impostazione di fondo della filosofia hegeliana è sempre stato per me un problema, e la filosofia di Hegel è certamente una delle più difficili.
Nel volume di Franca D'Agostini "Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza" (Carocci 2005) ho trovato però dei passaggi illuminanti che mi hanno molto aiutato:

"Ogni realista difensore della cosa senza soggetto sta in verità parlando di se stesso, e difendendo il proprio modo di guardare la realtà. Questo vale naturalmente anche per i difensori della soggettività senza la realtà: almeno e se non altro in quanto devono postulare come reale, dunque violare e rendere oggettivo, quel soggetto di cui difendono il primato contro gli oggetti.
In altre parole, nel momento in cui difendo i diritti dell'oggetto, lo faccio dal punto di vista di un soggetto tanto potente da saper conoscere perfettamente, e perciò difendere, il proprio altro; nel momento in cui invece difendo i diritti della soggettività lo faccio assumendo il soggetto stesso come un oggetto e un dato obiettivato, e dunque postulo un oggetto tanto forte da poter modellare con la sua forma il suo differente.
Questa elementare dialettica è il vizio di forma di qualsiasi posizione unilaterale. Ma l'opinione di Gadamer (come quella di Hegel), è che tutti, i soggettivisti come i difensori dell'oggettivo, sono in qualche modo spossessati dalla oggettività di questa dialettica, che - essa stessa - costituisce il movimento proprio di qualcosa che non è interamente riducibile al soggettivo, né all'oggettivo, pur essendo proprio dell'uno e dell'altro."

Ecco. Questa è la dimensione in cui si colloca la filosofia hegeliana. Di che si tratta? Del linguaggio, di quella dimensione oggettiva ma costituita attraverso il "solidificarsi dell'esperienza umana in concetti-parole", quindi qualcosa che ha una radice soggettiva e la cui oggettività non coincide però con quella delle cose. "Il linguaggio non è né uomo né cosa".

Hegel esalta e valorizza questa dimensione intermedia fra le cose (gli enti fisici) e i vissuti (gli eventi mentali), in cui troviamo oggetti che sono un prodotto collettivo dell'umanità e sono collegati fra loro in una struttura non statica bensì soggetta al mutamento, alla trasformazione storica.

Questa dimensione è in fondo quella della filosofia stessa, quella nella quale si collocano le indagini filosofiche, e la filosofia è anche quell'ambito "intermedio" fra scienza e arte che potrebbe far uscire dalla guerra delle "due culture" (umanistica vs scientifica) invitando all'ascolto reciproco, fornendo un terreno comune entro il quale dialogare.

Forse il male culturale del nostro tempo è proprio il non riuscire a tenere insieme i discorsi sui fatti e i discorsi sui valori.

14 ottobre 2008

Ontologia come valorizzazione




"Cosa esiste?"

Per rispondere devo affrontare una serie di questioni, ad esempio: esistono solo le cose materiali o anche gli eventi? solo le cose o anche i vissuti? solo le cose individuali o anche gli insiemi? solo le cose o anche i concetti?

Quando ammetto che un certo tipo di cose (ad esempio gli eventi) esistono, le sto in qualche modo valorizzando, sto dando loro dignità (potremo dire dignità ontologica).

Perché?
Perché ciò che esiste è sicuramente più importante di ciò che non esiste.
Se una cosa non c'è non conta nulla, non dobbiamo tenerne conto, non può influenzarci, condizionarci eccetera.
Se invece una cosa prima veniva considerata inesistente, e poi invece la si considera esistente significa che le stiamo dando importanza, la stiamo prendendo in considerazione.

Ma si danno solo due possibilità ontologiche, ovvero essere /non essere?
La ricchezza e la complessità del reale ci fa propendere per l'idea che ci siano diverse modalità di esistenza, tipi diversi di essere. (il modo in cui esiste un ricordo è diverso dal modo in cui esiste una sedia...)

Se intendiamo l'ontologia come la disciplina che intende chiarire le differenze generali fra tipologie di esistenza, possiamo però ancora porci la domanda: chiarire queste differenze generali non significa anche inevitabilmente stabilire una gerarchia, cioè valutare quali tipi sono più importanti e quali meno? Platone è andato senz'altro in questa direzione.

Potremmo però orientarci verso un'ontologia "paritaria", cioè rifiutarci di dire cosa esiste di più e cosa di meno. Potremmo allora per esempio sostenere che l'esistenza degli oggetti che occupano regioni spazio-temporali (gli oggetti fisici) non sia più importante dell'esistenza degli oggetti che non occupano tali regioni (per esempio i concetti).
Si tratterebbe di un'ontolgia che stabilisca differenze fondamentali senza ordinare gerarchicamente.

Ma il problema è che un’ontologia così concepita tenderebbe ad annullare la differenza fra essere e non essere, cioè mancherebbe del polo negativo, il non essere. Esisterebbe tutto, ma allora tutto avrebbe anche uguale valore. Come orientarsi in un mondo così concepito? Una valorizzazione totale equivale a un’annullamento del valore stesso.

Diversi e mutevoli sono i modi di “fare esperienze”, ovvero costruire/recepire il senso. Ma a noi serve distinguere fra ciò che ha senso e ciò che non ne ha, fra ciò che ha valore e ciò che non ne ha, fra ciò che esiste e ciò che non esiste.

Nella prospettiva di un'ontologia come valorizzazione la domanda

"Che cos'è X?"

si potrebbe considerare equivalente alla domanda

"Che senso ha X?"

Metafisicamente: l'Essere è il Senso.

"Esiste" è un predicato?




Forse la vera questione importante, in relazione alla quale i predicati "esiste/non esiste" acquistano un significato preciso, è la questione dell'esistenza o inesistenza di Dio. Non è un caso che la tesi di Kant per cui "esiste" non è un predicato sia stata da lui costruita proprio attraverso la critica alla prova ontologica dell'esistenza di Dio.

Ma è poi vero che dire "X esiste" non significa nulla?

Si potrebbe anche sostenere che "X esiste" sta per "X non è un prodotto della mente umana".

Certo questo non vale in tutti quei contesti in cui parliamo proprio dei prodotti della mente umana, per esempio teoremi, romanzi, sinfonie, teorie filosofiche... Certamente tutte queste cose esistono!
I contesti in cui "X esiste" ha significato sono proprio quelli in cui si discute sull'esistenza o inesistenza di qualcosa, i contesti problematici. In primo luogo le discussioni su Dio, ma anche secondariamente quelle sulle anime immortali, i fantasmi, i poteri paranormali eccetera.
Quindi in un certo senso è vero che tutto esiste e si tratta solo (!) di specificare differenze fra tipologie di esistenza diverse (le cose materiali, le relazioni, i vissuti, gli "oggetti logici/culturali"...) ma su una questione come quella di Dio il porlo fra gli oggetti prodotti dalla mente umana o il porlo come esistente (appunto nel significato di "non prodotto dall'uomo") fa una grande differenza. La differenza (seguendo Pareyson) tra il sostenere che il mondo ha senso e il sostenere che non ha senso.

Letture consigliate per approfondire la questione:

L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi 1995 e 2000
F. D'Agostini, Logica del nichilismo, Laterza 2000
F. D'Agostini, Storia di "la verità non esiste", "aut aut", 301-302, 2001

12 ottobre 2008

La macchina dell'esperienza




LA MACCHINA DELL'ESPERIENZA   Versione scaricabile e stampabile




Avvertenza: Questo racconto prosegue idealmente (stessi personaggi e stesso contesto) il racconto "La macchina del libero arbitrio" (pubblicato nel blog in due parti).



I

Scrivere la relazione sulla macchina del libero arbitrio era stato come liberarsi di un problema troppo complesso. L’avevo scritta a casa, concentrato, ma nelle pause che mi concedevo durante la scrittura il pensiero correva a quell’altra scatola verde sul tavolo delle novità, la cui presenza non avevo notato e che mi aveva indicato Robert.
Renate era contenta che avessi deciso di lavorare un po’ in casa, e mi portava ogni tanto generi di conforto: una tisana di liquirzia e cedrina, deliziosa, un cioccolatino al miele di lavanda, caramelle di lampone fatte da lei con i lamponi che coltivava in terrazza. Era una fase in cui stavamo molto bene insieme.
Mi disse che mi vedeva inquieto e gli spiegai che i ritmi di lavoro che la Hoekk ci imponeva erano serrati, ma che il lavoro ultimamente era diventato più interessante. Sì, ero agitato, ma era anche un’eccitazione positiva. Avevo infatti ricollegato mentalmente l’insolito colore verde della scatola contenente la macchina del libero arbitrio con la notizia, appresa qualche tempo prima alla Hoekk, dell’arrivo di tre filosofi nel gruppo dei creativi, e la presenza di un’altra novità di quel genere stimolava la mia curiosità, già forte per natura.
Il giorno in cui, ultimata la relazione, mi recai nuovamente in laboratorio ero decisamente allegro. La strada che facevo a piedi per arrivare in centro passava da uno dei grandi parchi della città. C’erano alcune persone in pantaloncini corti e scarpe da ginnastica che correvano, qualche mamma con bimbo in passeggino. Passai accanto a un signore seduto in panchina che leggeva un grosso volume dalla copertina arancione. Sbirciai il titolo: La vera religione è la matematica. “Però,” pensai fra me “una lettura impegnativa! ... così di mattino presto, al parco…”.
Aspirai con piacere, a pieni polmoni, l’odore dell’erba fresca, zuppa di rugiada, e per un minuto mi fermai a contemplare una quercia imponente. Ammiravo la grande ampiezza dei suoi rami frondosi e pensai che un equivalente ampiezza, rovesciata specularmente, dovevano avere le sue radici. Robert, puntualissimo come al solito, mi accolse calorosamente, e ci dedicammo subito all’apertura della scatola verde. L’unico pezzo familiare che conteneva era un casco bioelettronico. Era bianco, con riflessi iridati, quasi fosse di madreperla, ma doveva essere sicuramente una plastica integrata. Gli altri pezzi, tutti dello stesso materiale, erano strani: una grossa sfera, un piccolo display quadrato con tastierino numerico, e quattro tavolette che, da un lato, presentavano una superficie morbida, rossastra. Le quattro tavolette erano collegate da cavi trasparenti blu alla sfera e così anche il display.
Robert ed io ci scambiammo un’occhiata silenziosa: guardando i componenti della macchina non ci si capiva nulla.
Con mio grande sollievo, le istruzioni consistevano in un fascicoletto di non più di cinque pagine. Presi la scheda di produzione. Robert era accanto a me e la leggemmo in silenzio:

MACCHINA DELL’ESPERIENZA (nome provvisorio)
Caratteristiche del prodotto: la macchina è in grado di produrre, nel vissuto del soggetto che la utilizza, qualunque esperienza egli desidera. È necessario programmare la durata delle esperienze, a partire dall’immediato futuro, servendosi di un timer. La durata massima è virtualmente illimitata.

Dati tecnici: modello di mente n. 5332, modello di interazione mente-cervello n. 315; teoria Nozick-Ricoeur del flusso identità/coscienza; teoria Piana-Bonomi dell’immaginazione; microbiochip ASAD 5.7; neuroni organico-elettronici FTAH nella versione scalare.

− Che significherà “virtualmente illimitata”? − disse Robert
− Non capisco − risposi, sentendo contemporaneamente una vaga sensazione di disagio.
− E come diavolo fa la macchina a sapere i desideri di chi l’adopera?
− Non scordarti che attraverso il casco può avvenire trasmissione di informazioni dal cervello alle macchine nei due sensi…
− Sì, questo lo so ma… − sorrise guardandomi − questa volta sono io l’impaziente. Che ne dici di leggere con calma le istruzioni?
− Questa volta te lo concedo, dato che sono così corte. Inoltre non saprei proprio come inziare ad usare la macchina, dato che i suoi componenti non li riconosco. Robert lesse a voce alta le istruzioni, saltando alcune parti che gli sembravano non rilevanti.

PROGRAMMAZIONE DELLO SCOLLEGAMENTO AUTOMATICO
La scatola con il display contiene il timer ed è programmabile usando il tastierino numerico. Occorre innanzitutto inserire anno, giorno e ora presente. La durata di ogni sessione va programmata in anticipo inserendo anno, giorno e ora nel riquadro “tempo di fine esperienza”. Attenzione: nel corso del tempo programmato sarà completamente persa la memoria di tutto ciò che riguarda l’esistenza della macchina. Il soggetto quindi ignorerà che si tratti di esperienze prodotte artificialmente. Ciò è stato voluto dagli ideatori della macchina per consentire al soggetto una piena simulazione del reale, senza che le relative emozioni venissero inquinate dalla consapevolezza del trattarsi di una percezione illusoria. Ciò ovviamente comporta lo svantaggio che il soggetto non potrà scollegarsi volontariamente dalla macchina fino a quando non scatterà lo scollegamento automatico in base all’impostazione del timer. Nel caso in cui, nel corso di una sessione, si verifichi un incendio o altre condizioni pericolose per la vita del soggetto la macchina si scollegherà automaticamente. Ciò è garantito dal dispositivo di sicurezza ATACHIvers.9, lo stesso rilevatore attualmente in uso presso le cabine di pilotaggio delle astronavi. […]

POSIZIONE DEL CORPO Si consiglia la posizione sdraiata, supini, braccia stese lungo i fianchi, gambe piegate, piedi al suolo. Mani e piedi (che devono essere nudi), vanno rivolti verso il pavimento e affondati per bene nel materiale morbido delle quattro tavolette. […]

DURATE PROLUNGATE E OPZIONE “DURATA ILLIMITATA” Nel caso in cui si sia predisposta la necessaria assistenza esterna, sia per quanto riguarda i bisogni fisiologici del soggetto, sia per quanto riguarda il rifornimento di energia alla macchina e la sua manutenzione in corso d’opera (per questo secondo aspetto contattare i tecnici Hoekk ai numeri in fondo indicati), la durata di una sessione può essere programmata per periodi anche molto lunghi. A livello teorico non ci sono controindicazioni tecniche (né a livello biomeccanico, ne a livello psicofisico) all’ipotesi che la durata di una sessione venga a coincidere con l’intera durata della vita del soggetto. Per programmare quest’opzione digitare ∞ nello spazio riservato all’anno, nel riquadro “tempo di fine-esperienza” (ovviamente non sarà allora necessario indicare data e ora). In questo caso, però, solo un altro soggetto potrà scollegare dalla macchina il soggetto interessato. Nel caso di durate superiori alla settimana si consiglia l’utilizzo in camere antigravitazionali, per evitare problemi circolatori, piaghe da decubito e altri inconvenienti fisiologici. […]

AVVERTENZA
Nel corso del tempo programmato potranno verificarsi improvvise discontinuità nelle esperienze. Ciò è perfettamente normale, non va imputato a un difetto della macchina, e si verifica perché la macchina segue fedelmente l’andamento dell’immaginazione, lasciando che questa venga guidata unicamente dal desiderio e trasferendo tutti i vissuti sul piano della percezione.


− Quella storia della durata illimitata mi sembra inquietante. − dissi subito a Robert quando vidi che rialzava la testa dopo aver finito di leggere i passaggi essenziali delle istruzioni
− Già. Non si capisce perché abbiano previsto quell’opzione. Comunque la macchina sembra interessante, non trovi?
− Senza dubbio. Voglio provarla subito. Infilato il casco, regolai il timer inserendo l’ora esatta e poi programmai un’esperienza cinque minuti. Sdraiato per terra nella posizione consigliata, chiesi a Robert di aiutarmi ad infilare mani e piedi nelle quattro tavolette. La sensazione era piacevole. Erano fresche, morbide, si adattavano perfettamente alla forma delle mie estremità. Per avviare era sufficiente premere leggermente il pollice destro verso il fondo della tavoletta.

Inizialmente mi trovai nella medesima situazione da cui ero partito, con la differenza che invece che essere sdraiato per terra e collegato alla macchina ero seduto in poltrona (ogni traccia della macchina era scomparsa), di fronte a Robert. Il laboratorio era identico a quello reale, con i mobili lucidissimi in acciaio cromato e il pavimento a stelle e losanghe di legno vetrificato. Mi sentivo pervaso da una calma profonda.
Provavo un po’ di sete, e mentre consideravo quale bevanda mi avrebbe fatto piacere bere mi si materializzò fra le mani un bicchierone nel quale cominciò ad agitarsi un liquido multicolore. Fui sorpreso, ma non impaurito. Il bicchiere aveva una forma familiare, una forma rassicurante, che contrastava con il fatto che fosse comparso all’improvviso. Osservai il liquido al suo interno, che sembrava scosso da un frullatore invisibile. Restai per mezzo minuto ipnotizzato da quel movimento e dalla cangianza di colore che lo accompagnava. Poi riavvertii la sete. Il mio desiderio si precisò e contemporaneamente il liquido assunse un colore rossastro, fino a che si stabilizzò in un intenso rosso rubino. A quel punto ero quasi certo di sapere che quello era un bicchiere di puro succo di melagrana, esattamente ciò di cui avevo voglia in quel momento. Annusai, assaggiai un sorso. Il sapore era inconfondibile. Una dolcezza piena e ruvida, con una sottile vena asprigna. Sembrava di sentire il calore del sole insieme a una frescura ombrosa di sottobosco.
Era successo qualcosa di incredibile, lo sapevo, ma non mi sentivo affatto minacciato dal mistero di come fosse stato possibile. Il fatto che la realtà, in quel momento, si fosse adeguata perfettamente al mio volere mi diede una strana sensazione di giustizia. Senza pensarci ulteriormente, portai il bicchiere alla bocca e ne bevvi tutto il contenuto, assaporandolo con calma. Alla fine mi sentivo benissimo, completamente dissetato, inebriato dal sapore della melagrana e pieno di energia.
Mi alzai. Sentii che il mio corpo rispondeva con una forza inconsueta. Non ricordavo cosa stessimo facendo Robert ed io poco prima. Ero consapevole che la giornata lavorativa era iniziata da poco, ma non ricordavo di quale lavoro ci stessimo occupando. Ora Robert era assorto nella lettura di un fascicolo, e non badava a me. Avevo la sensazione che le mie forze fisiche e mentali fossero superiori al lavoro che mi attendeva in laboratorio. Avevo voglia di impegnarmi in qualcosa di importante, di veramente importante. Qualcosa che, sentivo, stava accadendo fuori dal palazzo della Hoekk.
Andando verso la finestra, per guardare cosa stesse avvenendo, passai accanto ad uno specchio e vidi per un istante la mia immagine riflessa. Il mio corpo mi apparve più bello di come ero abituato a considerarlo, con le spalle più larghe e complessivamente più robusto. Ma non mi soffermai a guardarmi. Sentivo di non averne il tempo.
Guardando attraverso la finestra, che dava sulla grande piazza antistante il palazzo, vidi che c’era una piccola astronave azzurra, scintillante, lucidissima, attorno alla quale si stava formando una folla di passanti curiosi. Capii subito di cosa si trattava: era il primo atterraggio di una delegazione proveniente da un’altra galassia, di una forma di vita intelligente mai vista prima. C’era bisogno di qualcuno che potesse comunicare con loro, che potesse scambiare con loro preziose informazioni sulla natura essenziale dell’energia. Solo io potevo farlo, perché solo io ero in grado di decifrare il loro linguaggio. C’era bisogno urgente di me laggiù, ne ero certo. Dovevo scendere immediatamente…


Scaduti i cinque minuti, tornai alla realtà, conservando traccia tangibile dell’ultima emozione che avevo provato. Sentivo che il cuore mi batteva forte. Robert mi interpellò immediatamente.
− Alec, tutto bene?
Mi ci volle qualche secondo per capire cos’era avvenuto. Ritrovandomi sdraiato a terra con mani e piedi infilati nelle quattro tavolette realizzai che si era trattato di un’esperienza illusoria, ma ricordavo tutto perfettamente, come se l’avessi realmente vissuto.
− Sì, Robert.
− Allora? Racconta
− Pazzesco! È come sognare, ma sei sveglio, consapevole…
− E decidi tu cosa sognare?
− Non esattamente… Non è che decidi prima. Decidi via via, ascoltando dentro di te le sensazioni. Quello che senti corrisponde a quello che via via accade, ma non è che lo sai prima, lo scopri di momento in momento…
− Ed è… piacevole?
− Direi di più. Direi… − il pensiero mi si chiarì in mente mentre mi sforzavo di parlarne a Robert − che sono stati cinque minuti di felicità, di pura felicità!
Raccontai brevemente cosa avevo vissuto, dopodiché proposi a Robert di provare su se stesso la macchina, in modo che poi ne potessimo parlare più facilmente.
Robert, curiosissimo, accettò volentieri.
Anche lui impostò cinque minuti, dopo essersi sdraiato e avere infilato mani e piedi nelle tavolette.
Lo osservai attentamente durante tutta la durata dell’esperimento. Notai l’espressione del suo volto, dapprima rilassato, poi sorridente, poi gioioso, poi... a un certo punto aprì la bocca e cominciò a respirare affannosamente. Con un certo imbarazzo dovetti registrare, percorrendo con lo sguardo tutto il suo corpo, fasciato dalla tuta da lavoro semiaderente, evidenti segni di eccitazione sessuale, che perdurarono per tutto il tempo dell’esperimento.
Quando tornò alla realtà si rese subito conto del suo stato, ancora in piena evidenza, ed arrossì violentemente.
Cercai di metterlo a suo agio:
− Non penserai che mi scandalizzi per così poco!
− No, ma…
− Vuoi andare a farti una doccia?
− No, grazie. È sufficiente che mi prepari una bevanda calda.
− Agli ordini. Cosa gradisci?
− Un infuso di tiglio, grazie.
Il nostro laboratorio era dotato di un efficientissimo vano di alimentazione, che si trovava vicino alla finestra. Feci qualche passo in quella direzione. Digitai sullo schermo quello che Robert mi aveva chiesto e in un minuto l’infuso fu pronto. Quando tornai a portarglielo vidi che Robert si era già ripreso dall’imbarazzo. Sorseggiando il tiglio socchiudeva gli occhi per proteggersi dal vapore. Lasciai che fosse lui a decidere quando iniziare a parlare.
− Allora Alec, sappi che non ho alcuna intenzione di raccontarti nei dettagli cosa ho vissuto…
− Beh, questo lo davo per scontato, ma dimmi come si sono svolte le cose, come l’hai vissuto...
− Infatti, di questo possiamo parlare, anzi dobbiamo. Innanzitutto anche per me l’esperienza è stata bellissima, intensa al pari di un’esperienza reale, e anche per me le cose si sono svolte seguendo fedelmente l’andamento di un desiderio che scoprivo momento per momento. Devo dirti, ad esempio, che l’esperienza che ho vissuto non corrispondeva alle mie classiche fantasie sessuali, se non riguardo alle grandi linee…
− Ovvero?
− Ovvero… − qui esitò, poi sembrò prendere una risoluzione − ovvero c’erano, come di consueto, più partner che… − mi lanciò un’occhiata indagatrice.
Io restai, recitando alla perfezione, impassibile.
−… si prendevano cura di me contemporaneamente, ma… non avrei potuto dire in anticipo cosa avrebbero fatto… anche se poi… quello che facevano corrispondeva esattamente al mio desiderio in quel momento.
− Capisco. La modalità è la stessa dell’esperienza vissuta prima da me. Sappiamo quindi ora qual è l’interesse principale di questa macchina: produce piacere soddisfando i desideri via via che questi si presentano.
− E non solo piaceri fisici. Tu, prima, stavi inziando un’esperienza nella quale il piacere sarebbe stato quello di svolgere una ruolo intellettuale, e d’azione insieme, di grande prestigio sociale…
− Già. Invece che “macchina dell’esperienza” potevano chiamarla “macchina della felicità”. Credo si venderà molto, moltissimo… Comincio anche a capire perché abbiano ipotizzato durate lunghe.
Decisi che avrei provato di nuovo la macchina. Volevo vedere dove si poteva arrivare con una sessione di durata decisamente più lunga di cinque minuti. Chiesi a Robert di starmi sempre vicino e di sorvegliare il mio comportamento. Non mi fidavo completamente dei test di sicurezza.
Dopo aver impostato il timer su una durata di tre ore, riassunsi la posizione sdraiata con le gambe piegate e i piedi affondati nelle due tavolette. Infilai il casco, adagiai le mani nell’altra coppia di tavolette e diedi l’avvio.


Ero seduto in poltrona, in laboratorio. Robert era di fronte a me e mi guardava sorridendo. Sentivo che stava per dirmi qualcosa di determinante per il mio immediato futuro.
− Allora, Alec! − disse − Su quella scrivania ti ho preparato tutto il materiale necessario a farti una cultura sufficientemente solida e profonda per poter affrontare il compito che ti aspetta.
Sapevo a cosa stava alludendo. Mi ero iscritto a tenere un intervento nel XXXIV Congresso interplanetario sui Fondamenti. Avevo qualcosa di importante da dire. Mi era venuta tempo addietro un’intuizione straordinaria, che si trattava ora di definire, di ancorare a precisi riferimenti culturali.
Mi avvicinai trepidante alla scrivania.
Vi troneggiavano pile di volumi, ordinate per argomenti e disposte in questa sequenza: matematica, fisica teorica, cosmologia, biologia, religioni comparate, filosofia.
Per nulla scoraggiato, anzi elettrizzato da quanto mi aspettava, presi il primo volume della prima pila a sinistra: Bolahvnsky-Klosserman, Teoria completa dei numeri.
Cominciai a voltare le pagine, partendo dalla prima. Nome della collana nella quale il volume era inserito. Copyright, Iduanie Editore, date delle edizioni, codice del volume. Frontespizio. Indice:

1. Numeri naturali e innaturali
2. Numeri razionali e irrazionali
3. Numeri reali e immaginari
4. Numeri transfiniti: ordinali e cardinali
5. Numeri iperbolici e ellittici
6. Numeri assiomatici e dimostrativi
7. Numeri assoluti e relativi
8. Numeri pieni e vuoti
9. Numeri continui e discreti
10. Numeri globali e locali

Quest’indice, che normalmente mi avrebbe paralizzato, fu come leggere un’appetitoso menu. Ogni titolo di capitolo creava nella mia mente un apposito spazio, predisposto, pronto ad accoglierne il contenuto. Continuai a girare le pagine con ritmo regolare, e ogni pagina che vedevo, bastava un’occhiata attenta, si trasformava automaticamente in informazioni digerite, organizzate, in concetti che andavano a collocarsi in una struttura organica, collegata con quanto già sapevo sull’argomento, o costruendo ex novo strutture autonome, autoreggenti.
Apprendere in modo così veloce era meraviglioso. Avevo la sensazione quasi fisica dell’irrobustimento progressivo della mia mente. Mi sembrava di sentire i circuiti neuronali infittirsi e complicarsi via via che giravo le pagine. Ben presto il libro fu terminato e fui pronto per la seconda opera nella pila della matematica: Nukualonghi, Teoria dei giochi seriali su basi caotiche.
Procedevo metodicamente, dal primo all’ultimo libro della pila di quelli di matematica. Arrivato a metà della pila (avevo già “letto” otto libri) scoprii che era sufficiente premere il libro sulla fronte e tenercelo per un minuto, a occhi chiusi, per ottenere un’assimilazione completa del suo contenuto. In questo modo, in un’ora e mezza avevo già digerito tutto il centinaio di libri che si trovavano impilati sulla scrivania affrontandoli metodicamente dal primo all’ultimo. Sentivo che la mia padronanza dei concetti fondamentali si era enormemente rafforzata. Provai a ripensare alla mia intuizione di partenza, quella che mi aveva convinto di avere qualcosa da dire di importante al Congresso dove si riunivano periodicamente i maggiori matematici, fisici, leader religiosi, filosofi, e immediatamente ogni proposizione che la componeva si collegò ad altre proposizioni, queste ad altre ancora e così via.
Nella mia mente si compose un discorso complesso ma organico, unitario. Si trattava ora di riflettere su alcuni nodi, che si erano venuti a creare nel corso di questo processo, e su alcuni passaggi che risultavano troppo azzardati o lacunosi. Mi concentrai solo sui punti critici e passai una buona mezzora assorto in profonda riflessione. Provavo un piacere eccezionale nel constatare quanto la mia mente si fosse ampliata dopo aver studiato tutti quei volumi. Potevo spaziare, col pensiero, da una disciplina all’altra e repentinamente confrontare il medesimo concetto sotto tutti i punti di vista che ciascuna disciplina mi forniva.
Trovai all’improvviso un nuovo concetto che scioglieva i nodi e rinsaldava i passaggi fragili. Il modo in cui elegantemente risolveva contemporaneamente tutti i problemi del mio discorso mi convinse ulteriormente della sua adeguatezza a sostenere la tesi fondamentale che avrei proposto al Congresso.
Tornai da Robert, e gli comunicai che mi sentivo pronto.
− Bene, Alec, anche perché fra poco tocca a te parlare!
Mi accompagnò con un’aeromobile al palazzo del Congresso. Il mio ingresso nella vasta sala, gremita, fu accolto con un leggero applauso di incoraggiamento. Nessuno mi conosceva, ma ero convinto che dopo il mio discorso avrebbero riguardato il mio nome sull’elenco degli iscritti a parlare.
All’inizio mi tremava leggermente la voce, ma poi acquistai progressivamente sicurezza e alla fine con voce calma e sicura pronunciai le ultime parole: «… perché sono profondamente convinto sia necessario affermare che solo la matematica può essere considerata la vera religione, la religione adatta ai nostri tempi!».
Ci fu un attimo di completo silenzio nella sala. Sembrava che tutti aspettassero per accertarsi che avessi veramente finito. Poi iniziò un forte applauso, che invece che diminuire aumentò, e proseguì mentre la maggior parte dei presenti non solo batteva le mani ma si alzava in piedi e guardava nella mia direzione sorridendo, piangendo di commozione, scrutandomi con interesse. Sentii sciogliersi qualcosa dentro di me. Capii di aver fatto un buon lavoro, che le mie idee erano importanti al fine di raggiungere una pace stabile nella galassia, e che partendo da quel discorso avrei dovuto scrivere un libro nel quale esporre dettagliatamente, con maggiori argomentazioni, le tesi che componevano il nucleo centrale del discorso. Forse quel libro, se fossi riuscito a scriverlo in un linguaggio semplice, accessibile a tutti, avrebbe potuto segnare una svolta decisiva nel modo di pensare degli esseri intelligenti della galassia…


Improvvisamente tornai alla realtà. Era scaduto il tempo programmato. Ricordavo benissimo le sensazioni e le emozioni che avevo provato, ma non riuscivo a rammentare il discorso che avevo pronunciato. Passai cinque minuti a sforzarmi di ricordarlo (ed ero già pronto a prendere qualche appunto), ma non ci fu niente da fare, a parte l’ultima frase, il cui significato, però, non comprendevo se non superficialmente. Al confronto con la straordinaria sensazione di potenza intellettuale che avevo vissuto, ora mi sembrava che il mio pensiero si muovesse in modo estremamente lento, con fatica.
Raccontai a Robert la mia esperienza. Poi cercai di trarre qualche conclusione.
− La macchina presenta indubbi motivi di interesse: possederla significa avere sempre a portata di mano uno strumento per ottenere momenti di pura gratificazione, di pura felicità. Chi non vorrà averne in casa almeno una?
− Il problema, però, è che si tratta di esperienze illusorie. Mentre le si vive si è completamente sganciati dalla realtà.
− Sì, ma le emozioni che si provano le si vive veramente, e anche le reazioni corporee che le accompagnano, come ben ricorderai… Robert arrossì nuovamente.
− Penso, continuai, che come forma di svago sia perfetta, che sia il modo ideale di uscire dallo stress, di staccare completamente…
− Staccare dalla realtà. − incalzò nuovamente Robert, che bruscamente, alzando il tono della voce e guardandomi dritto negli occhi, mi chiese: − Cosa mi dici dell’opzione “durata illimitata”?
− In effetti è strano che l’abbiano prevista…
− Ma ti rendi conto di cosa significherebbe scegliere quell’opzione?
− Non riesco a immaginare, ti confesso, chi mai potrebbe volere una cosa del genere.
− Sarebbe − e qui Robert assunse un’espressione desolata − una cosa tristissima. − I suoi occhi vagavano nel vuoto − Vorrebbe dire perdere una persona definitivamente. Quella persona, a quel punto, vivrebbe in un suo mondo completamente separato, magari sentendosi benissimo e vivendo esperienze per lei esaltanti, ma sarebbe in una sorta di coma perenne, tagliata fuori da ogni relazione, da ogni rapporto, sia con le persone, sia con le cose.
Robert rabbrividì, e mi trasmise la sua cupezza. Cercai di reagire:
− Non potrei, allora, semplicemente suggerire di togliere quell’opzione?
− Già , ma allora basterebbe programmare una durata superiore a quella della propria vita, calcolata sulla durata media della vita umana, e il risultato sarebbe lo stesso.
− Sì, hai ragione. Si tratterebbe di porre un limite. Stabilire una durata massima oltre la quale la macchina si spegne automaticamente. Non so… quarantott’ore mi sembrerebbe un buon limite.
− Questo sarebbe già meglio, ma non potrebbe funzionare ugualmente.
− Perché? − Vuoi che in breve tempo non salterebbero fuori i furbi che trovano il modo di aggirare l’ostacolo tecnico e prolungare la durata oltre il limite prefissato? Una volta che esiste una possibilità tecnica, come ben sai, è molto difficile tenere l’uomo lontano dal realizzare tale possibilità. Sicuramente comincerebbero a proliferare macchine “sprotette” illegalmente. La gente comincerebbe a imparare come si fa, comincerebbero a circolare di contrabbando “dispositivi” per prolungare la durata a basso costo, con istruzioni per il fai da te.
Robert aveva ragione. Ormai l’esperienza storica, nel campo della tecnica, insegnava proprio questo. Mi bastò un breve ragionamento per convenire con lui.
− Allora − dissi − non ci resta che affidarci al buon senso delle persone. Se qualcuno farà un uso dissennato di questa macchina la responsabilità sarà solo sua e di chi lo aiuta. Ma questo, caro Robert, vale per qualsiasi cosa. Anche una sedia può trasformarsi in un’arma letale, se invece che usarla per sedermici la fracasso in testa a qualcuno.
Con questo il nostro discorso fu chiuso. Restavo profondamente convinto che la macchina fosse un eccellente strumento di evasione e anche, indirettamente, un modo per sondare i propri desideri e quindi conoscersi meglio.
Scrissi subito, in breve tempo, la mia relazione, che fu quindi sostanzialmente positiva. Feci presente, alla fine, il rischio di isolamento sociale e di chiusura in una dimensione autoreferenziale e improduttiva che la macchina aveva in sé, ma avanzai la tesi che un uso eccessivo della macchina sarebbe stato sintomo di un disagio preesistente: effetto, non causa.


II


Di fatto le perplessità contenute nella mia relazione, per quanto lievi, portarono la Hoekk ad iniziare la vendita, in via sperimentale, solo in alcuni pianeti delle colonie della regione galattica di Sinox, nelle quali era prevalente una popolazione umana discendente dall’Oriente terrestre.
Dopo qualche anno, per curiosità, decisi di fare un viaggio in uno di quei pianeti, Poh-kio-nu, assumendo una guida e affittando un’aeromobile a idrogeno.
Arrivato all’astroporto, che ammirai per la sua architettura sontuosa ma alleggerita dal prevalere di materiali trasparenti, venni accolto dalla guida, una ragazza dall’aria energica e sicura, che per farsi riconoscere nella folla di persone in attesa aveva il nome, Kazantha Mahoi, scritto in lettere luminose fluttuanti nell’aria sopra la sua testa.
Era molto gentile. Mi accompagnò all’aeromobile, già pronta e parcheggiata in un’area sopraelevata dell’astroporto. Durante il viaggio verso la città più grande e vitale, nella quale avevo deciso di risiedere, cominciai subito la mia indagine.
− Come vanno le cose, qui su Poh-kio-nu?
− Cosa vuole, signore… da quando è iniziata la mania della Espix… la nostra economia ha rischiato il crollo. Ora ci siamo un po’ ripresi, ma è stata dura.
− Espix? − feci finta di non sapere nulla.
− Ma come, non la conosce? È quella macchina bianca che ti strippa… mi perdoni… che ti fa viaggiare nella tua mente.
− Non capisco…
− È un vero sballo. La deve provare. Il problema è che poi fai fatica a tornare alla vita reale. Ti viene voglia di starci attaccato il più possibile.
− Già, immagino…
− Comunque se vuole provarla senza comprarne una, anche perché costano parecchio, può andare in un Esp-coffee; ce ne sono parecchi nella zona centrale della città. Sono dei locali pubblici dove ci si può collegare alla Espix per durate predeterminate. Così non corre neanche il rischio di cadere subito nella prima assuefazione.
− Prima assuefazione?
− Beh, all’inizio, se la compri, te ne innamori subito, tendi a vederla in modo molto positivo e programmi subito tempi troppo lunghi, che magari interferiscono con la tua vita professionale o sentimentale… Ricordo certe litigate col mio ragazzo!... Lì invece sei costretto a stare in tempi limitati, e non ti consentono di collegarti per più di tre volte al giorno per una durata massima di un’ora per volta.
− Sta parlando in durate standard, terrestri?
− Sì, tenga conto che qui una giornata dura trentacinque ore terrestri.
− E se cambi locale?
− Se ne accorgono perché si accede tramite un pass che devi presentare all’ingresso.
− E costa caro il pass?
− Caro? Ma no! È gratis! Il governo ha deciso questo per disincentivare gli acquisti delle Espix. Oggi la pubblicità è vietata, e hanno alzato ancora il costo. Sa, hanno dovuto farlo… soprattutto per evitare che le comprassero i giovani.
− Beh, ma se un ragazzo ne ha una in casa, che hanno comprato i suoi, non può usare quella?
− Dopo la prima ondata di vendite hanno deciso di rendere i modelli successivi utilizzabili esclusivamente dall’acquirente, che all’atto dell’acquisto registra il proprio DNA sulla piastrina di avvio, in modo che la macchina funziona solo con lui, e hanno venduto i dispositivi per rendere anche le Espix già vendute crittabili con il proprio codice genetico.
− Vedo che lei è molto informata sull’argomento, come mai?
− Ci credo! Per mesi e mesi non si è parlato d’altro su tutti i mezzi d’informazione. Alcuni storici parlano già di un’era pre-Espix e di un’era Espix…

Nel frattempo eravamo arrivati a destinazione. Planammo dolcemente sulla terrazza di atterraggio dell’albergo che avevo prenotato. Diedi un’occhiata alla città dall’alto, e ammirai la struttura razionale delle strade pedonali: un modulo a stella che si ripeteva regolarmente, con al centro una struttura circolare, a ragnatela. Aree verdi al centro di ogni modulo. Subito sopra le abitazioni iniziava l’intrico di canali virtuali per le aeromobili. L’albergo era tutto gestito da alieni batush. Parlavano alla perfezione la lingua umana universale. L’unica cosa un po’ buffa era vederli indossare le divise standard del servizio alberghiero, perché si capiva benissimo che la loro pelle a scaglie acuminate si adattava male ai tessuti fascianti. Il direttore mi accolse con un largo sorriso che scoprì le sue ottantaquattro zannine. Era estremamente affabile ed efficiente. Facevo un po’ fatica a decidere quale occhio guardare nella sua faccia trapezoidale. Mi accompagnò alla mia camera spiegandomi intanto gli orari e gli usi dell’albergo. Ero arrivato giusto in tempo per una cena leggera, che veniva servita secondo un menù fisso, di genere interplanetario. Lasciai il mio bagaglio leggero in camera e mi accordai con Kazantha che ci saremmo rivisti l’indomani. Per la serata avevo in mente di muovermi liberamente, scoprendo la città per conto mio. Mentre aspettavo la cena, seduto nel grande salone arredato con colori vivaci, chiamai Renate e Robert, per rassicurarli del mio arrivo a Poh-kio-nu.
Mangiai volentieri il classico piatto di ghiande azzurre lessate con contorno di plancton gigante fritto. Il dessert prevedeva invece un sorbetto di more con una gelatina arancione di cui non riuscii a riconoscere il sapore. Il cameriere mi spiegò che si trattava di un frutto che cresceva solo so Poh-kio-nu.
− Deliziosa. Può portarmene un’altra porzione?
− Ma certo, signore. Mi resi conto che tutta quella gentilezza derivava probabilmente dal sapere che fossi un terrestre, e quindi dal prevedere mance generose. Cercai di non deludere il personale dell’albergo, e mi tenni su mance del quarantacinque per cento. Ben rifocillato, uscii dall’albergo e camminando cominciai a riflettere sulle notizie che mi aveva dato Kazantha.
Era emerso che l’introduzione della Espix nel mercato di Poh-kio-nu aveva provocato uno sbandamento, ma che erano già in fase di ripresa. Ciò sembrava corrispondere a quanto l’uso della Espix provocava nella vita di un individuo. Del resto bisognava tenere conto che occorreva anche attendere il consolidarsi di una cultura sull’uso della Espix. Ma la domanda più urgente, sulla quale volevo ottenere al più presto una risposta era se ci fosse qualcuno che avesse scelto l’opzione “durata illimitata”.
Decisi di recarmi in un Esp-coffee per vedere di carpire qualche informazione in proposito. Seguendo le indicazioni luminose mi indirizzai verso il centro della città, e dopo poco cominciai a vedere qualche insegna di Esp-coffee. Entrai nel primo che avesse un’aria abbastanza decorosa.
Notai subito un’atmosfera tranquilla ma molto affollata. Quasi tutti erano giovani, umani e alieni, sia in coda all’ingresso, sia, nel grande salone che si intravedeva oltre un’apertura ad arco trilobato, sdraiati su tavolinetti bassi, con le gambe piegate, mani e piedi infilati agli angoli, dove erano fissate le quattro tavolette della Espix. Un chiacchiericcio sottovoce, qualche risatina, ma l’attesa nell’atrio era sostanzialmente ordinata. Un impiegato pubblico alieno controllava i pass e un altro prelevava le calzature, che venivano poste in un’ampia scaffalatura, e consegnava le contromarche.
Sulla destra, dietro un bancone, due baristi robot servivano bevande e spuntini. Mi rivolsi ad uno di questi, cercando di scandire le mie parole nel modo più chiaro possibile.
− Salve. Sono un turista. Vengo dal pianeta Terra. Se non si dispone del pass è possibile accedere nel salone delle Espix?
Vidi il diaframma del suo occhio aprirsi e fui colpito da un breve flash. Evidentemente era programmato per fotografare ogni nuovo cliente. Poi mi rispose con una voce ricostruita:
− Esistono pass turistici. Deve recarsi nei punti informazioni e mostrare la sua piastrina d’identificazione. Le verrà rilasciato un pass valido per il periodo della sua permanenza su Poh-kio-nu.
Il suo volto d’acciaio era lucidissimo. Seguendo l’istinto gli porsi a bruciapelo la domanda che più mi stava a cuore.
− Esistono utenti della Espix che scelgono l’opzione “durata illimitata”?

Restò immobile per qualche secondo. Iniziò ad emettere un ronzio leggero ma continuo, sul quale si modulavano crepitii a intervalli irregolari. Dopo circa quindici secondi di quella scena cominciai a pensare di averlo messo in seria difficoltà, ma alla fine rispose.
− Esiste una clinica dove si pratica il suicidio assistito, secondo la recente normativa L688 7354 6576 5454 comma 3/b. Indirizzo della clinica: Ottavo Corso del settore 21, al numero 305. Per ulteriori informazioni consultare la pagina
w.78854442343433333232234543454332222323211111112323244677889666554454.

Da una fessura che aveva all’altezza del petto, sulla destra, uscì un cartoncino dove erano stampate quelle informazioni. Lo presi e me lo infilai nel taschino della tuta.

L’indomani chiesi a Kazantha di combinarmi un appuntamento con uno dei dottori di quella clinica.
Mi guardò spaventata.
− Ma signore! Non penserà sul serio di…
− No, cara. La mia è curiosità professionale.
Non avevo voglia di darle ulteriori spiegazioni. Lei, rispettando il mio riserbo, non mi fece ulteriori domande. Mentre facevo colazione lei, efficientissima, aveva già fissato l’appuntamento per il pomeriggio.
Passai la mattinata a fare acquisti nei migliori negozi, che Kazantha mi portò a visitare. Il fatto che comprassi diversi oggetti sembrò rassicurarla.

Quando mi trovai di fronte al dottor Fukumaton-Ashanti Jokomori capii subito che da quell’uomo avrei avuto risposte ad ogni mia curiosità sulla Espix. Aveva un’aspetto estremamente colto e raffinato. Il suo studio era arredato in maniera semplice e trasmetteva calore, protezione.
− Lei è il signor Alec ….. …..?
− Sì. Sono io.
− Bene. Si accomodi e mi dica qual è il suo problema.
− Dunque. Chiarisco subito che non sono qui per un suicidio assistito.
Il dottore continuò a guardarmi con attenzione, ma non disse nulla.
− Sono qui perché, sulla Terra, ho compiuto il test finale sulla Espix e ho dato parere positivo sulla sua vendita. La cosa che mi aveva lasciato più perplesso era l’opzione “durata illimitata”. Pensavo non l’avrebbe scelta nessuno, ed ora vengo a sapere che esiste una clinica come questa, dove si pratica il suicidio assistito.
− Capisco la sua preoccupazione, ma deve rassicurarsi. Da quando esiste la Espix, la legislazione in materia di suicidio è stata modificata. La Espix è stata ritenuta l’unico mezzo attraverso il quale lo stato potesse fornire assistenza, in assenza di malattie inguaribili e completamente invalidanti, ad una forma di suicidio di fatto, senza assumersi la responsabilità di provocare la morte biologica. L’opzione “durata illimitata”, infatti, costituisce una forma di vita completamente equivalente, dal punto di vista oggettivo, alla morte. La persona scompare da qualsiasi forma di relazione, non è più in contatto con la realtà. È vero che la persona continua ad avere esperienze soggettive, ma non potendole poi comunicare a nessuno, è come se queste esperienze non esistessero. Ma sa quanti casi abbiamo avuto, da quando esiste questa possibilità?
− No, appunto, e mi interessa saperlo. Mi dica.
− Uno.
− E perché volle suicid… scegliere l’opzione “durata illimitata”?
− Una delusione amorosa. Un uomo scoprì, dopo quarant’anni di rapporto di coppia, che da trent’anni la sua compagna lo tradiva regolarmente.
− Un caso su… Quante persone hanno finora potuto utilizzare liberamente la Espix?
− Credo la cifra si aggiri intorno ai trecento miliardi.
Già queste notizie mi sollevarono il morale, ma c’era un’altra questione che volevo chiarire.
− Ho sentito dire, però, − dissi − che la Espix genera un bisogno che può degenerare in dipendenza…
Il dottore prese un fascicolo, che cominciò a sfogliare tranquillamente. Poi si rivolse a me:
− Anche su questo esistono statistiche precise. È stato provato che la durata massima che viene programmata, anche nei casi più gravi di attaccamento alla macchina, è comunque inferiore alla metà del tempo che al soggetto rimane da vivere, calcolato sulla speranza media di vita. In pratica, nessuno è interessato a passare più della metà del tempo che gli rimane da vivere attaccato alla Espix, sempre ammesso che riesca ad organizzare un’assistenza esterna che gli fornisca alimentazione e provveda ai suoi bisogni fisiologici per tutto il periodo.
− Ma di casi di questo tipo quanti ne avete registrati?
− Una percentuale dello 0,0000002 circa.
− E una volta tornati alla vita?
− Questi casi estremi, che passano magari vent’anni terrestri attaccati alla Espix, assistiti dai loro cari, una volta tornati alla vita si pentono di aver buttato via tutto quel tempo e hanno crisi di rigetto verso la loro Espix, che generalmente viene distrutta o restituita alla casa produttrice.
− Ma allora qual è l’uso che viene fatto della Espix, in definitiva?
Il dottore tirò un lungo sospiro.
− Oggi come oggi acquistarne una è possibile solo, di fatto, per gli adulti. Per i ragazzi ci sono gli Esp-coffee…
− Sì, ne ho visto uno ieri.
− Se si può disporre di una Espix personale, l’impatto iniziale è di difficile gestione, ma dopo qualche tempo l’uso si stabilizza. In generale posso dirle che oggi ci avviamo verso un inserimento della Espix nella normale vita quotidiana senza che questo generi problemi. Certo, resta al primo posto fra le forme di svago praticate su Poh-kio-nu, e ha fatto calare l’interesse per la fruizione delle opere d’arte e per la conoscenza scientifica. Uno studio recente testimonia però significativi segnali di ripresa d’interesse, sia per l’arte che per la scienza. Personalmente, se posso azzardare una previsione, ritengo che alla fine la Espix terrà un suo posto accanto alle altre forme classiche di gioco, ma niente di più: non credo che si possa mai fare a meno di sapere ciò che accade nella realtà e nelle menti degli altri, mentre l’esplorazione della propria mente, alla lunga, risulterà noioso. La produzione, lo scambio e la fruizione di cultura resteranno qualcosa di insostituibile e di molto più ricco e stimolante che non il viaggiare nei propri desideri. Conoscere i desideri degli altri è enormemente più vario e stimolante, così come lo è comunicare, esprimere i propri desideri e, soprattutto, cercare di realizzarli.
Ringraziai Fukumaton-Ashanti Jokomori. Mi chiese notizie della Terra, aggiungendo che al riguardo l’informazione interplanetaria ufficiale era a suo parere scarsa e superficiale (volutamente?, mi verrebbe da aggiungere). Cercai di soddisfare ogni sua curiosità, anche per ricambiare la grande apertura con la quale mi aveva riferito le notizie sull’uso della Espix, e la saggezza con la quale le aveva commentate.
Fuori, ad aspettarmi, c’era Kazantha, che quando mi vide mi accolse festosamente, e mi portò a visitare un’incredibile monumento del più grande artista vivente di Poh-kio-nu. Descriverlo mi è quasi impossibile. Posso solo dire che si trattava di un aggrovigliato, nero, lucente, speziato labirinto a otto dimensioni, entrando nel quale si perdeva letteralmente il senso della propria collocazione spaziale. All’uscita ritrovare l’alto, il basso, la destra, la sinistra, il vicino, il lontano, il davanti e il dietro faceva un effetto di grande pace e di grande stabilità.
Un effetto analogo lo provai quando rimisi piede sul suolo terrestre, al termine del mio breve viaggio su Poh-kio-nu.

La macchina del libero arbitrio, parte II





II

Il giorno successivo, al contrario del precedente, era burrascoso. Il cielo si presentava come un’immensa coltre di nubi bluastre che rotolavano velocemente su se stesse. In lontananza, da uno squarcio, filtrava qualche raggio di luce. Incontrai Robert fuori dal palazzo della Hoekk, e salimmo insieme in ascensore.
− Come va? − gli chiesi.
− Bene, anche se quella macchina mi inquieta un po’. Sono comunque curioso di vedere cosa farà nell’opzione 1, quella principale.
− Anch’io sono curioso, Robert, ma entro oggi voglio liquidare la questione.
− Ma perché tutta questa fretta? Abbiamo come minimo una settimana, prima di dover consegnare la relazione su un prodotto come quello, data la sua indubbia complessità.
− È vero, ma sento che con una macchina così potremmo essere tentati di allungare indefinitamente i tempi.
− Bah, fossi in te non sarei così sulle difensive. Ad ogni modo sei tu che decidi i tempi, quindi…
− Vedremo. Arrivati in laboratorio, ci sdraiammo innanzitutto nelle comodissime poltrone da relax, per riordinare le idee prima di iniziare.
− Sai cosa? − dissi mentre mettevo a fuoco uno dei dubbi che mi giravano in testa − c’è una questione emersa dagli avvenimenti di ieri che non riesco ad affrontare, troppo sottile per una mente dura, come la mia, ma forse tu, che hai una mente morbida…
− Dimmi pure.
− Per sapere se una mia scelta è stata libera, devo, tornato nella stessa situazione, poterla ribadire identica, o devo poterne fare una diversa?!
Robert rabbrividì.
− Credo tu abbia messo proprio il dito sulla piaga, Alec. Stanotte sono stato sveglio a lungo, a pensare proprio a questo problema. Un tuono spaventoso ci distolse per un momento dalla nostra conversazione. Iniziò una pioggia scrosciante. Era bello starsene all’asciutto a conversare, comodamente rilassati nelle straordinarie poltrone della Hoekk, mentre fuori ogni cosa veniva colpita da miliardi di gocce crepitanti. Con un leggero sorriso sulle labbra, consapevole del fatto che quel tuono era sembrato sottolineare maggiormente le sue parole, Robert riprese:
− Ti dico cosa ho pensato, anche se purtroppo non ho una risposta risolutiva. Allora. Se fai una scelta diversa, confermi la contingenza della scelta, che è una delle componenti del concetto di “libero arbitrio”. Se rifai la stessa scelta, confermi invece che quella scelta dipendeva solo da te, e che quindi è in tuo potere ribadirla. Confermi che era proprio quello ciò che tu volevi… Quindi… Confermi in entrambi i casi una delle due componenti che sembrano richieste per poter definire libera una scelta, ma… una sembra in contraddizione con l’altra! Non puoi confermare entrambe le cose contemporaneamente! Ciascuna delle due altrenative ha infatti il suo rovescio negativo. Ovvero: se fai una scelta diversa, neghi che quella scelta dipendesse in ultima analisi da te stesso…
− Ma perché, scusa?
− Perché la macchina ti fa tornare esattamente alla stessa situazione in cui ti trovavi, e tu quindi torni ad essere esattamente quello che eri.
− E allora?
− Se tu sei identico, ma fai una scelta diversa, vuol dire che è intervenuto qualche altro fattore, che non dipende da te… Giusto?
− Sì, diciamo di sì, anche se comincio a perdere le tracce del tuo ragionamento.
− Concludo. Se ribadisci la stessa scelta, invece, neghi la contingenza, o meglio, può restarti sempre il dubbio che la tua scelta fosse necessaria, dal momento che si è ripetuta uguale.
Qualcosa mi sfuggiva, anche se avevo notato lo sforzo di Robert per essere estremamente chiaro, e avevo ammirato la profondità del suo pensiero.
− In definitiva? – chiesi ancora.
− Alla domanda secca, che hai posto prima che iniziasse a piovere, direi che non c’è una risposta univoca, per due motivi: una è la questione che ho cercato di spiegarti, ovvero che il concetto di “libero arbitrio” può essere interpretato in due modi differenti, a seconda che si sottolinei una o l’altra delle due componenti di cui è formato. L’altra è la questione che la macchina consente di ripetere l’esperimento su una scelta infinite volte, e quindi diventa rilevante, ma mai concludente, la proporzione fra scelte ribadite e scelte mutate.
− Torno a dire, Robert, e confermo dopo aver ascoltato le tue lucide riflessioni, che non capisco l’utilità né il divertimento che può avere una macchina come questa, usata nell’opzione 2. Speriamo che l’opzione 1 ci riservi qualcosa di meglio.
Così dicendo, passai all’azione. Infilato con cura il casco, accesi la macchina. Robert, al mio fianco, si sedette anche lui per seguire meglio ciò che compariva sul monitor. Come il giorno prima, comparve il seguente riquadro:

1. Aumento della capacità di scegliere liberamente
2. Verifica della libertà di scelte già compiute

Scegliendo la prima opzione, comparve un secondo riquadro:




Sotto, alcune scritte spiegavano:

Scegliere una combinazione di livelli nei tre campi.
Livelli con numeri più alti corrispondono a gradi di libertà maggiore.
La durata dell’effetto sul cervello è inversamente proporzionale all’altezza del livello prescelto. Per avere effetti apprezzabili, il livello 0 è consigliato solo in un campo per ciascuna combinazione.
Vivamente sconsigliata ai principianti la combinazione 555.
Combinazione consigliata ai principianti: 101.

− Quale combinazione sceglieresti, Robert?
− Conoscendomi dovresti saperlo: la 101.
− Io invece sono fortemente tentato dal puntare dritto dritto sulla 555, così andiamo subito al cuore delle prestazioni della macchina.
Robert reagì:
− No, senti, se dice “vivamente sconsigliata” ci sarà un motivo! Vorrei evitare di doverti soccorrere per una crisi confusionale.
− Sì, ma non possiamo stare qui a fare le cose per gradi come i principianti. Dobbiamo puntare all’essenziale, capire presto in cosa consiste, se c’è, il bello di questa macchina.
Percepii chiaramente lo sforzo di Robert per restare calmo. La questione dei tempi di lavoro era fra noi fonte di perenni scontri. La sua fronte era attraversata da rughe profonde e aveva gli occhi socchiusi. Dopo un lungo respiro disse, lentamente:
− Se consiglia 101 significa che il campo centrale, quello della personalità, è il più rischioso. Ti propongo un compromesso: imposta 505.
− E sia.
Cliccai nelle caselle corrispondenti alla combinazione 505 e diedi l’invio. Adesso mi tornano in mente le parole di un grande scrittore argentino di molto tempo fa, che sembrano fatte apposta per me, al punto in cui sono con questa storia: «Arrivo, ora,» scrive in uno dei suoi racconti più belli «all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono». E prosegue domandandosi come trasmettere agli altri un’esperienza unica, irripetibile, che oltretutto, nel suo caso, implicava «l’enumerazione, sia pure parziale, d’un insieme infinito».

D’improvviso fu come se la mia mente si spalancasse. Avevo la sensazione di vedere un enorme ventaglio, un gigantesco albero dalle innumerevoli braccia: avevo di fronte tutte le cose che avrei potuto fare nel presente (molte più di quante non sospettassi un secondo prima), tutte le cose che avrei potuto vedere e sentire, immaginare e ricordare, pensare e volere; e da ognuna di esse si aprivano altre azioni e omissioni future e altre ancora più future. Da ogni azione sbocciava un fascio di altre azioni possibili e le ramificazioni si estendevano a perdita d’occhio, incanalandosi alcune in progetti eleganti e complessi, mentre altre proseguivano linearmente. Potevo spaziare con la mente su tutte le mie possibili azioni future, e sulle vite che di conseguenza mi si preparavano davanti; ma contemporaneamente a ciò avevo la sensazione di poter vedere con chiarezza i miei pensieri, i sentimenti e le emozioni del passato, il perché avevo fatto una cosa e non quell’altra. Le ragioni dei miei comportamenti passati si esibivano con una limpidezza e una vivacità incredibili, e vedevo riaffiorare innumerevoli cose che mi erano successe ma che avevo dimenticato, cose minime, l’occhiata di un passante, la lieve freddezza di una risposta, una vaga sensazione di malessere dopo un gelato alla vaniglia, il sole sulla pelle, il vento in una passeggiata lungo il mare, musiche e frasi scritte su bigliettini stracciati e un tubetto di vernice rossa spiaccicato sul pavimento e un secchiello capovolto sul quale da bambino saltavo ridendo e pennarelli elettrici, astronavi affollate, lombrichi, gelsi e bachi da seta, banchi di scuola pieni di graffiti e assemblee fumose, un insetto verde dorato e odore di resina, riflessi colorati su una grande bolla di sapone, colla sulle dita, trucioli di legno chiaro ai piedi di una statua intagliata da un robot, gli occhi di un asino, capricci, rimproveri, partite a scacchi, ore passate al computer; ed era, insomma, come se potessi vedere il mio inconscio: una massa immane e infinitamente stratificata, in cui immagini, suoni, rumori, odori, erano intrecciati e collegati in una rete multipla pur non perdendo la loro singolarità. Mi sembrava di aver raggiunto, in così poco tempo, una visione unitaria della mia vita passata: la vedevo tutta, lì, con una sua forma precisa e inconfondibile, e avevo la sensazione di sapere esattamente chi ero e cosa volevo nel mondo.

Quando l’effetto fu terminato mi guardai attorno e ritrovai il laboratorio, Robert che mi guardava preoccupato, la finestra e il rumore della pioggia scrosciante. Mi rimaneva solo una sensazione di forte benessere, ma quella chiarezza sconcertante, quella visione così potente, erano perdute nella loro ricchezza: me ne restava la forma, ma non il contenuto. Mi sentivo benissimo ma completamente spossato, inerte. Robert ruppe il silenzio.
− Alec, non sono riuscito a seguire nulla sul monitor, perché il tuo flusso di coscienza era troppo veloce. Immagino che l’esperienza sia stata molto intensa e molto bella, a giudicare dalla tua espressione. Credo però che… che ci sia un problema.
Quando Robert parlava di problemi con quel modo esistante mi metteva subito in allarme. Una scossa adrenalinica mi strappò dal mio torpore estatico.
− Problema? Quale problema? Ti assicuro, Robert, che è fantastico. Ora capisco il senso di questa macchina. Ti dà come un sensazione di… mi verrebbe da dire di onnipotenza, ma non è esattamente quello che vorrei dire. Mi rendevo conto che spiegare a Robert sarebbe stato troppo difficile. L’unico modo per capire era provare su di sé.
− Sì, vedo, Alec, ma…
− Dài, deciditi a parlare! Non muoio mica!
− Hai effettuato quest’ultimo esperimento con la macchina senza avere nessuna scelta particolare da compiere, senza avere una decisione da prendere. Come possiamo verificare se la tua capacità di scegliere liberamente era realmente aumentata, nei due minuti in cui ha avuto effetto la macchina? Vedi? Il monitor ora è vuoto, non ti dà nessuna risposta, nessuna indicazione.
− Ti assicuro, Robert, che la macchina funziona. È qualcosa. Qualcosa di forte. In ogni caso… ma non potevano chiedermelo prima? Sarebbe bastata una scritta, come nell’opzione 2. Ti ricordi? “Quale scelta intende verificare?” Qui avrebbero dovuto chiedermi: “Quale scelta intende effettuare?”.
− È vero. Probabilmente lo davano per implicito, o forse era scritto sulle istruzioni e non hanno ritenuto necessario ripeterlo a video…
− Accidenti, questa è una manchevolezza che va sicuramente segnalata nella relazione. Stai prendendo appunti, vero, di tutto quello che succede?
− Certo, come al solito.
− Bene, allora segna questa come una delle cose più importanti: le istruzioni essenziali vanno messe tutte a video.
− Subito. Mentre Robert scriveva, io mi sforzavo di ricordare cosa avevo visto e capito su me stesso e sulle mie possibilità, ma non ci riuscivo. Mi sembrava, ora, di muovermi con la mente in uno spazio angusto: poche cose davanti, pochi pensieri e sempre uno per volta, qualche ricordo ogni tanto. “Come si fa a vivere così?” mi chiesi per un attimo.
− Beh, allora non c’è che riprovare − incalzai, deciso a ripetere prima possibile quell’esperienza.
− Sì, ma devi prima trovare una scelta da compiere con la quale rivolgerti alla macchina, se no è inutile…
− Inutile non direi proprio. Comunque sì, hai ragione. Dunque, vediamo. Una scelta da compiere… Oddio, così all’improvviso non è facile da trovare.
− Beh, una ce ne sarebbe, già bella e pronta: la scelta su quale scelta sottoporre alla macchina…
− Robert, cerchiamo di non complicarci la vita. Andiamo sul semplice. Ci serve una scelta semplice, non una meta-scelta… Se no poi impazziamo per capire quello che succede.
Robert sembrava un po’ deluso che la sua idea non fosse stata risolutiva, ma convenne con me che era meglio andare sul semplice. Ben presto ci rendemmo conto che scelte importanti, scelte di vita, né io né lui ne avevamo realmente davanti. Eravamo soddisfatti sia dal punto di vista affettivo, sia da quello professionale. Le scelte che, realisticamente, avremmo dovuto affrontare riguardavano cose meno importanti: dove trascorrere le vacanze? cosa scegliere come prossima lettura di svago? Alla fine, più che altro per tagliare corto, optai per sottoporre alla macchina una scelta che sapevo mi sarei trovato di fronte nel giro di pochi giorni: cosa regalare a Renate per il suo compleanno? Le alternative non erano molte. Conoscevo bene i suoi gusti. Era una scelta semplicissima, banale, che in realtà non mi poneva problemi anche perché ormai sapevo che Renate accettava volentieri, di anno in anno, regali dello stesso tipo; non si aspettava sorprese, quindi in generale non mi dovevo scervellare per trovare cose nuove da regalarle. Robert convenne che proprio per il suo carattere di estrema semplicità e banalità questa scelta si prestasse a verificare senza problemi l’effetto della macchina. I problemi con Robert vennero invece quando gli comunicai che intendevo procedere impostando la macchina sul 545.
− Ma Alec, si tratta di un grado meno dell’opzione 555, quella sconsigliata ai principianti! Coinvolgere subito il campo della personalità, e ad un livello così alto… Perché non provi con 515?
Forte della meravigliosa esperienza provata con l’opzione 505, riuscii a superare tutte le remore di Robert, e imposi che il prossimo esperimento si sarebbe svolto con l’opzione 545.
Infilai il casco, digitai 545 e mi concentrai sul problema di cosa regalare a Renate. Diedi l’invio.
Il tutto si svolse nello spazio di un minuto. Di nuovo provai la sensazione di spalancamento dello spazio mentale. Mi trovavo al centro. Davanti a me un ventaglio di possibilità, che certamente partiva molto più ristretto rispetto a quello dell’esperimento precedente, ma si estendeva indefinitamente investendo l’interezza delle mie vite possibili a partire da quelle poche alternative iniziali. Dietro di me la massa intricata delle esperienze passate, dalla quale emergevano alcune ragioni specifiche, alcuni motivi con i quali mi trovavo ad avere ora a che fare. Era come se dovessi manipolare le ragioni che emergevano e innestarle sul ventaglio delle possibilità. Avevo di fronte, chiarissimamente, una serie di cose che avrei potuto scegliere di regalare a Renate, innanzitutto quelle che sapevo avrebbero incontrato i suoi gusti: un profumo importato dal pianeta Micronesian, un nuovo programma da inserire nella camera nutrizionale, l’ultima novità in fatto di calzature autopulenti, un saggio sulla vita degli insetti sociali. Secondariamente, vedevo altri oggetti che avrei potuto regalarle facendole una sorpresa. Per ciascuna di queste cose, vedevo chiaramente quale sarebbe stata la sua reazione, che uso ne avrebbe fatto e come il nostro rapporto ne sarebbe stato leggermente modificato. In quale direzione, dunque, volevo mandare Renate? In quale direzione intendevo spingere il nostro rapporto? La ragione principale, che emergeva dal mio passato, era la volontà di confermare a Renate il mio amore e mantenere il rapporto così com’era nel presente. Ma, mi chiesi, perché farlo? Perché consolidare questo rapporto? Era proprio questo, che volevo? Le ragioni della stabilità, della continuità, del valore di un rapporto ormai forte e sano, del valore di Renate come persona, mi apparirono sullo stesso piano di quelle del cambiamento, del rischio, dell’avventura, dell’ipotetico valore di un’altra donna. Vedevo chiaramente che stava solo a me decidere quali ragioni fossero le più importanti, le più valide. Stava solo a me assegnare un peso a queste diverse ragioni. Questa volta, pensai rapidissimamente, voglio rischiare, gettare un ombra su questo rapporto con Renate, vedere come reagisce lei, e se reagisce male peggio per lei, continuerò a sottrarre, a minare la solidità del rapporto. O regge, e allora vuol dire che il rapporto è veramente solido, o non regge, e allora sarò pronto per tentare una nuova relazione, lascerò Renate, senza paura…
L’effetto della macchina si interruppe bruscamente. Sul monitor campeggiava la scritta:

Lei ha scelto di non regalare nulla a Renate.

Ero di nuovo mentalmente scombussolato, ma questa volta di più e avevo anche un po’ di nausea. Durante il minuto trascorso sotto l’effetto della macchina mi ero sentito benissimo, con una grande forza mentale, con la strana sensazione che la grande potenza mentale che mi sentivo di avere fosse sprecata, sproporzionata per una scelta così piccola e semplice, ma adesso guardavo sbigottito il monitor e solo con grande fatica riuscivo a ricordare con quale ragionamento fossi arrivato a quella bizzarra decisione. Non riuscivo assolutamente a riconoscermi nella scelta di non fare nessun regalo a Renate. Immaginavo il suo volto deluso, e già solo questa immagine mi rattristava.
− No… non è possibile che io abbia pensato una cosa simile…
− In effetti, Alec, − rispose prontamente Robert, che aveva cercato di seguire il tutto restando incollato al monitor − non sarebbe da te. Spero tu non abbia intenzione di rispettare la decisone che hai preso sotto l’effetto della macchina!
− No, non credo, ma…
− Ma…? − Mi fa però impressione il fatto che comunque questi pensieri li ho fatti io, a questa scelta sono arrivato io…
− Sì, tu, ma un tu modificato dalla macchina!
− Ma la macchina non può aver cambiato la mia personalità, può solo aver reso più libera la mia vera personalità…
− Sì, Alec, ma secondo me questa macchina ha passato il limite oltre il quale non ha più senso dire che tu potresti scegliere diversamente, ma occorre piuttosto dire che un altro potrebbe realizzarsi invece di te! La frase di Robert mi fece piombare in uno stato di profonda riflessione introspettiva. Mi rendevo conto che dentro di me quella decisione bizzarra, per quanto la sentissi estranea, lentamente, mentre ne parlavo con Robert, stava prendendo piede, con tutto il capovolgimento di valori che si tirava dietro. “Perché restare attaccati alle sicurezze?” Questa domanda mi frullava in testa e non riuscivo a scacciarla, ma contemporaneamente provavo orrore e paura per questa specie di metamorfosi interiore di cui avvertivo i primi segnali. Il senso di nausea aumentava, accompagnato da paura e da una sorta di vertigine. Sì, era proprio come aveva detto Robert, mi sentivo come se un’altra persona stesse pian piano, nei miei pensieri più reconditi, facendosi strada dentro di me. Improvvisamente provai un moto di disgusto e di rabbia verso la macchina ed esplosi:
− Ma questi sono matti! Questa è roba pericolosa!
− Alec, ricorda però che tu hai voluto saltare subito ai livelli più alti. Forse, se avessimo fatto le cose con calma, per gradi, come suggeriva la macchina…
− No! Sarebbe stato peggio! − urlai − Così sarei scivolato lentamente verso un’altra personalità senza neanche accorgermene. Adesso, invece, avverto chiaramente lo stacco, e posso difendermi. Il mio io originario sta reagendo!
Lo sfogo violento mi aveva fatto bene. Sentivo di stare tornando nella mia cara, vecchia identità. Mi presi dieci minuti di pausa, spiegando a Robert che avevo bisogno di ritrovare il mio equilibrio. Adagiato in poltrona, lasciai che la nausea passasse naturalmente, e indugiai a lungo sul pensiero di Renate, che mi avrebbe accolto con il suo consueto abbraccio al ritorno dal lavoro. La mia Renate. Sì, l’amavo veramente, con tutte le sue paure, le sue incertezze. Amavo la sua enorme vitalità, il suo coraggio, la sua mente capace di sottili argomentazioni, l’attenzione e la presenza con la quale riusciva a vivere ogni situazione, il suo corpo caldo e avvolgente.
− Credo di sapere cosa scriverò nella mia relazione su questa macchina. Ne sentiranno delle belle. − dissi a Robert con calma e fermezza
− Non resta che provare l’opzione 555.
Robert sgranò i suoi grandi occhi color salvia su di me:
− Cosa?? Dopo quello che è successo vuoi ancora provare la macchina, e oltretutto al grado di massima potenza!!??
− Diversamente, caro Robert, non potrei dire di conoscere a fondo la macchina, e la mia relazione perderebbe valore.
− Il tuo argomento non fa una piega, ma non potremmo, da quanto è già successo, per induzione, capire cosa succede al livello 555?
− Come sai meglio di me, Robert, con l’induzione non si va molto lontano. No, data la complessità di questa macchina, nel passaggio da 545 a 555 possiamo aspettarci di tutto. L’unica è un duro impatto con la realtà: proverò subito cosa succede utilizzando l’opzione 2 al massimo livello.
− Mi arrendo. Tanto alla fine sei comunque tu che devi decidere e sei tu che ti assumi la responsabilità delle relazioni che escono da questo laboratorio. Decidemmo che, per avere un riscontro oggettivo sulla differenza tra 545 e 555, avrei riproposto alla macchina la stessa scelta in merito al compleanno di Renate.
Rimesso il casco e tirato un lungo respiro, impostai la 555 e mi concentrai nuovamente sul problema di quale regalo scegliere. Diedi l’invio.
Anche qui il mio compito di scrittore è arduo, e riconosco con rammarico di aver trovato una soluzione che tende ad allontanarsi dal registro narrativo per abbracciare quello saggistico, ma confido di rientrare prima possibile nella pura narrazione. La rete delle motivazioni e l’albero delle possibilità esistevano, così come le avevo “viste” nell’esperimento precedente, ma ero io, che non esistevo più. Non che la volta precedente mi fossi visto, personificato, tra le motivazioni e le possibilità, ma avevo avuto la netta sensazione di essere “localizzato” tra passato (motivazioni) e futuro (possibilità). Mi ero sentito lì, in un luogo preciso, un luogo mentale, un punto nel mio spazio mentale. Adesso invece ero come svaporato. Non era la sensazione di essere disincarnato, puro spirito, o cose del genere. Molto di più: non mi sentivo più da nessuna parte… ero, se così posso dire, lo spazio entro cui esistevano motivazioni e possibilità. Non ero localizzato in alcun punto, ero lo spazio in cui esisteva una molteplicità indefinita di punti. Un’emozione paradisiaca pervadeva questo spazio. Se un’entità, per esistere, deve avere un’identità, allora non ero più un’entità. Esistevo ancora, ma come potenzialità di modifica in relazione alle motivazioni e alle possibilità che contenevo: ero, per cercare di essere precisi, una struttura, non una sostanza… Una sensazione stranissima e affascinante. Durò pochi secondi. Il tempo però di osservare con infinito distacco la varie possibilità che avevo di fronte… Al termine, ero troppo stralunato per poter fare qualsiasi cosa e mi ci vollero dieci minuti di respirazione profonda ad occhi chiusi per riprendermi. Quando mi riebbi, vidi Robert seduto in poltrona con gli occhi lucidi persi nel vuoto. Evidentemente aveva letto il monitor ed ora stava pensando. Con grande curiosità lo guardai anch’io.
La scritta diceva:

la scelta è stata trascesa
ovvero
qualsiasi opzione è indifferente
ovvero
non c’è realmente bisogno di scegliere

− Come ti senti, ora? − mi chiese Robert, ansioso.
− Ora sto bene, ma è stato sconvolgente. Sperimenti un altro modo di esistere…
− Con un’identità fluida? − azzardò Robert
− Senza identità. E hai visto che bel risultato? Sarebbe come dire che qualsiasi regalo va bene? Mi sa che è lo stesso tipo di risposta ogni volta che imposti il 555. Comunque, Robert, ti assicuro che un conto è leggere quella scritta, che sembra banale, un conto è vivere l’esperienza di ciò che ci sta dietro. In ogni caso credo che l’opzione 555 vada gustata senza avere nessuna scelta particolare da sottoporre alla macchina, oppure con scelte veramente importanti. Solo così si può apprezzare veramente l’equivalenza delle possibilità, se osservate da un punto di vista… superiore, esterno a qualsiasi individualità.
− Tu parli di “equivalenza delle possibilità” come se si trattasse di una risposta generale della macchina, se impostata sul 555. Ma ricordiamoci che ti sei rivolto alla macchina proprio con una scelta semplice. Cosa sarebbe accaduto se ti fossi sottoposto all’esperimento, con 555, avendo di fronte una scelta morale?
− Intendi una scelta fra bene e male? Non credo che si possano considerare equivalenti, nemmeno dopo averli considerati con l’opzione 555. Già, non ci avevo pensato…
− Azzardo un’ipotesi, anche perché non credo che noi potremmo fare, qui e ora, un esperimento su vere scelte radicali, come quelle fra un progetto di vita buona e uno di vita scellerata. Dovremmo, per poterlo fare, trovarci realmente di fronte alla scelta se infrangere o no la legge, ad esempio, e dovremmo avere motivazioni forti, per essere di fronte ad una scelta di questo tipo, non trovi?
− Sì, non saprei proprio, ora, cosa farmi venire in mente.
− Quindi non possiamo che avanzare ipotesi. Ne azzardo una: forse, nell’opzione 555, automaticamente le strade “cattive”, “malvagie”, sarebbero messe fuori gioco.
− Perché?
− Perché se è vero che si prova un’assenza di identità e si è in grado di osservare con distacco totale le varie alternative non si può andare verso il male. Il male voluto, scelto, implica, credo, un forte, fortissimo senso di sé, il considerare le proprie ragioni più importanti e superiori a quelle della comunità, e più forti di quelle di coloro contro i quali si compie l’azione malvagia o criminosa. Un criminale, un individuo che scelga coscientemente di perseguire il proprio interesse ai danni degli altri, sfruttandoli e opprimendoli o addirittura sopprimendo la loro vita, non può sentirsi privo di identità.
− Ma allora, specularmente, non potremmo dire che anche il buono, il giusto, devono avere un forte senso di sé? Il sentirsi capaci di migliorare il mondo… Te lo immagini un Gesù senza senso di identità?
− Un Gesù no, ma un Buddha nel momento dell’illuminazione sì. Uscire dalla propria identità, dal proprio io, era uno degli obiettivi delle religioni orientali, e si traduceva, nella prassi, in un atteggiamento di piena accettazione della realtà. Chi accetta la realtà così com’è non può fare del male a nessuno.
− Ma nemmeno, mi verrebbe da dire, può fare del bene…
− Se riesce a convincere anche gli altri ad accettere la realtà si va verso l’eliminazione radicale del male.
− Ma se la realtà fosse malvagia, almeno in parte? Non ci sarebbe il bisogno di agire, di fare il bene contro il male, di cambiare le cose? Come si può accettare tutto, se nel tutto è compreso il male?
− Alec! Mi stupisci! Hai una vena metafisica che non mi aspettavo proprio di trovare, in te!
− Oddio, Robert, mi rendo conto che stiamo allontanandoci dall’obiettivo. Voglio scrivere al più presto la mia relazione su questa macchina.
− Ti dirò che avrei molta curiosità di provarla ancora io, ma… mi rendo conto che il lavoro è tanto… Oggi, hai visto, c’è un altro scatolone verde su tavolo delle novità… Non l’avevo visto. Ma non mi meravigliai più di tanto. Sapevo che i ritmi di produzione della Hoekk erano pazzeschi.
− … Vedrò − concluse Robert − di comprarmene una quando verrà messa in vendita.

La mia relazione fu per molti aspetti decisamente negativa. A parte gli enormi difetti delle istruzioni, sia quelle cartacee (troppo lunghe e difficili) sia quelle in video (incomplete), restava indubitabilmente pericolosa l’opzione 1: l’uso del campo della personalità poteva generare, sostenevo basandomi sulle mie esperienze, stati confusionali, crisi d’identità. Ma anche nell’ipotesi di eliminare completamente dalle possibili opzioni il campo della personalità restava un problema di fondo: scelte compiute sotto l’effetto della macchina sarebbero state realmente più libere? L’incredibile aumento di consapevolezza delle proprie reali possibilità e motivazioni non generava di per sé una variazione nella personalità? A compiere una scelta enormemente più consapevole rispetto a quella che avrebbe compiuto senza far uso della macchina, non sarebbe quindi stato comunque un altro io? Quanto all’opzione 2, la presentavo come inconcludente: qualsiasi risultato, argomentavo, era interpretabile in modi diametralmente opposti e restava sempre il dubbio su cosa sarebbe successo iterando l’esperimento molte altre volte. Nella conclusioni della mia relazione volli però rivalutare la macchina. Se andava scartato, per la pericolosità e la paradossalità dei risultati, il suo utilizzo in relazione all’azione, la ritenevo invece utilissima in relazione alla conoscenza. Uno strumento potentissimo per la conoscenza di sé. Se usata con le dovute cautele avrebbe potuto sostituire egregiamente, suggerivo, un percorso di psicoterapia. E in fondo, mi chiedevo in chiusura, l’aumento della conoscenza di sé, se adeguatamente rielaborata, digerita dal soggetto, non produce forse scelte realmente più libere? In definitiva il problema restava l’accelerazione artificiale di un naturale processo di progressiva presa di coscienza di sé. Acquisire troppo velocemente questa coscienza ne rendeva gli effetti non realmente padroneggiabili dal soggetto. Tutta la potenziale positività sarebbe dunque dipesa dalla capacità di moderazione e gradualità nell’uso della macchina. Né Robert né io abbiamo avuto notizia che la macchina del libero arbitrio sia mai stata messa sul mercato terrestre. Apparentemente, fu la mia relazione finale a bloccare ogni produzione e ogni vendita. Ma sia io che Robert siamo sicuri che versioni modificate di tale macchina, magari con altri nomi, siano state messe in vendita su altri pianeti, pur non avendo notizie certe in proposito. Forse vogliono provarla su piccoli gruppi sociali prima di immetterla in un mercato umano globale come quello terrestre. Temono, probabilmente, che una sua diffusione massiccia in società standardizzate come quelle attuali possa provocare rivoluzioni, guerre civili, gravi crisi sociali. Pensano che individui decisamente aperti all’avventura, al cambiamento, alla sperimentazione, alla novità, alla ricerca dell’originalità, al rischio, siano tutto sommato ingovernabili, e che una società composta tutta di individui di questo tipo sia esplosiva. Ma, mi chiedo, hanno ragione? Non possiamo pensare che invece una società di persone con un libero arbitrio spinto ai massimi livelli possa evolvere verso forme politiche sempre più complesse e sempre migliori? Come si può crescere se non si rischia mai? D’altra parte anche rischiare soltanto, senza mai costruire qualcosa di solido e sicuro, finisce per essere logorante e autodistruttivo. Non escludo, comunque, di vedermi ricomparire davanti, nella vetrina di qualche negozio di bioelettronica, da un giorno all’altro, quella strana macchina, e spero di non aver esagerato con la negatività della mia relazione, togliendo ai dirigenti della Hoekk il coraggio di provare a venderla.

Verso una filosofia della sessualità

 

VERSO UNA FILOSOFIA DELLA SESSUALITA'  Versione scaricabile e stampabile


Piergiorgio Paterlini, scrittore e giornalista, con il suo Manuale di educazione sessuale per gay ed etero, uscito per la prima volta nel 1995 con il titolo Io Tarzan, tu Jane e riedito nel 2003 (Zelig Editore), si rivolge, ed è subito evidente per lo stile colloquiale e scanzonato, ai ragazzi. Nel fare questo, però, avanza delle proposte teoriche tutt’altro che divulgative, anzi diremmo alquanto “impegnative”: sia per l’impegno che richiedono alla mente del lettore, sia nel senso che sono tesi forti, che toccano questioni concettuali, quindi questioni fondamentali. Sostengo che il suo libro pone questioni che andrebbero risolte costruendo una filosofia della sessualità, e che quindi una recensione critica del testo costituisce un buon punto di partenza per chi voglia avventurarsi in tale direzione.

Fra gli obiettivi del libro c’è quello di capire l’omosessualità (e difenderla dall’omofobia) ma nella convinzione che «capire bene l’omosessualità sia anche il modo migliore per parlare correttamente di eterosessualità, e quindi di sessualità in generale», e tenendo sempre ben presente l’intreccio della sessualità con l’amore.

Qui cercheremo innanzitutto di esporne in una ricostruzione sintetica (ben coscienti che questa operazione è già in un certo senso un atto interpretativo) le tesi più importanti e le principali argomentazioni (1−6), e aggiungeremo poi alcune considerazioni critiche e riflessioni suscitate dal testo (7−13).

1. L’impianto concettuale è tutto basato su una distinzione di fondo fra tre livelli di discorso, che sono però anche tre livelli dell’esperienza stessa, della realtà stessa, che vanno tenuti a suo parere ben distinti quando si parla della sessualità: l’oggetto del desiderio (o orientamento sessuale), l’identità di genere, i comportamenti.
Nella sua definizione iniziale di oggetto del desiderio − «chi mi piace, chi desidero, chi amo, di chi mi innamoro» − sembra considerare (ma l’impressione viene confermata poi dallo sviluppo del discorso) più importante l’aspetto amoroso rispetto a quello puramente sessuale: la forma piena del desiderio è quindi, in questa prospettiva, un’esperienza che coinvolge tutta la sfera affettiva.
La tesi di fondo, riguardo l’omosessualità, è che differisca dall’eterosessualità solo nel senso che consiste nella realtà di chi ha come oggetto del desiderio persone del proprio sesso. Non riguarda l’identità di genere, non riguarda le pratiche sessuali né la distinzione fra attivo e passivo.
Va quindi, di pari passo, ridimensionata l’importanza della diversità omosessuale: l’oggetto del desiderio (se sia maschio o femmina) è solo uno fra i mille aspetti della sessualità e dell’amore. Nel corso della storia, dice Paterlini, “a un certo punto” la differenza etero/omo è sembrata l’unica importante, l’unica caratterizzazione rilevante della sessualità, ma questo modo di considerare le cose va cambiato: vi sono molte altre caratteristiche dell’oggetto del desiderio, al di là della sua omogeneità o eterogeneità rispetto al genere del “desiderante”. Per esempio: è più vecchio? Più giovane? Coetaneo? È più magro/muscoloso/grasso? È più bello di corpo o di viso? È più intellettuale o più incolto? Di che colore ha gli occhi e i capelli? E inoltre (passando da come l’oggetto è a come mi rapporto ad esso): me ne innamoro a prima vista o dopo un po’/molto tempo? Eccetera.
Parlando di oggetto del desiderio, Paterlini enuncia a un certo punto una sorta di “legge del desiderio” che per la sua semplicità e per il suo radicarsi nel senso comune potrebbe essere considerata universale, ma sulla cui verità occorrerebbe secondo noi interrogarsi più a fondo: «Si cerca sempre chi ci completi». L’oggetto del desiderio sarebbe quindi sempre complementare al desiderante, ma la complementarietà può individuarsi in molteplici e svariati aspetti oltre a quello della polarità del genere sessuale.
L’intento “politico” che sta dietro a questo suo insistere nel voler ridurre la percezione della diversità omosessuale è la volontà di “smontare” argomentativamente l’atteggiamento omofobico, mostrando innanzitutto come l’omosessuale sia in realtà vicino, simile. Ciò anche al fine di raggiungere una situazione in cui gli eterosessuali prevedano l’esistenza degli omosessuali, che contemplino questa possibilità accanto a tutte le altre che già contemplano nel considerare la varietà dei possibili oggetti del desiderio.

2. L’identità di genere, ovvero il sentirsi uomo o donna, a prescindere dalla propria conformazione anatomica, è, secondo Paterlini, stabile a partire dai tre-quattro anni. I transessuali sono coloro la cui identità di genere non coincide con il loro genere biologico: è un conflitto interiore fra il sentirsi appartenenti, ad esempio, al genere femminile e il ritrovarsi ad avere, invece, un corpo maschile. I transessuali sono, secondo Paterlini, eterosessuali: per esempio se un individuo è biologicamente uomo ma si sente donna, e desidera gli uomini, quello che conta, dal punto di vista dell’oggetto del desiderio, è che si tratta di un desiderio eterosessuale: desidera gli uomini sentendosi donna, e conta più come uno si sente rispetto a quale sia la sua conformazione anatomica.
Esistono anche persone (ma sono rarissime, secondo Paterlini), nelle quali la transessualità si assomma all’omosessualità: es. biologicamente uomo, si sente donna, desidera le donne.
Situazioni più “sfumate”, rispetto alla transessualità, sono quelle del travestitismo e dell’effeminatezza (o della mascolinità nel caso si parli di donne). Si tratta sempre, secondo Paterlini, di questioni di identità di genere, ma presenti in gradazioni e modalità diverse rispetto alla transessualità. Tutte queste realtà, questi modi di essere, appartengono nella maggioranza dei casi, se osservate dall’angolazione dell’oggetto del desiderio, all’eterosessualità.
Parlando di “effeminatezza” viene spontaneo interrogarsi riguardo a cosa sia attribuibile al “maschile” e cosa al “femminile”. Paterlini, a questo proposito, distingue fra due insiemi di caratteristiche: l’insieme comprendente le caratteristiche attribuite ai generi storicamente e culturalmente e l’insieme delle caratteristiche psicobiologiche “originarie”, immutabili. Per esempio, se parliamo di femminilità, caratteristiche storico-culturali sono la dolcezza e il carattere materno (caldo, accuditivo…); caratteristiche psicobiologiche sono (ma qui dobbiamo precisare che Paterlini non fa esempi) la grazia, la seduttività, una maggiore sensibilità e ricettività.

3. I comportamenti sessuali sono appunto ciò che di fatto si pratica a livello sessuale, sia riguardo a quali pratiche specifiche siano preferite sia riguardo al ruolo preferito (attivo o passivo) sia riguardo alla scelta del sesso dei propri partner. I comportamenti, sostiene Paterlini, sono mutevoli.
Occorre anche qui distinguere questo genere di considerazioni da quelle relative all’orientamento sessuale e da quelle relative all’identità di genere: per esempio un uomo che desidera gli uomini può di fatto astenersi dal realizzare questo suo desiderio e avere invece rapporti sessuali e affettivi con donne.
La categoria dei comportamenti serve anche a Paterlini per inquadrare un tema sfuggente quanto profondo e ricco di implicazioni qual è quello della bisessualità. La sua tesi è che la bisessualità, se intesa come orientamento sessuale, non esiste. La bisessualità esiste, ma va intesa solo come comportamento. Per esempio: un sedicente bisessuale può essere in realtà un omosessuale che rinuncia a formare coppia stabile con un uomo e per “salvare le apparenze” si sposa e continua però ad avere rapporti occasionali con uomini.
Perché non si può intendere la bisessualità come orientamento? Perché non si può pensare che per un individuo sia “indifferente” se innamorarsi di un uomo o di una donna: se guardiamo alla capacità di innamorarsi e di amare (e ricordiamo che è proprio questo che contraddistingue l’oggetto del desiderio per Paterlini), deve esserci una differenza: se mi innamoro delle donne non posso innamorarmi anche degli uomini.
Altri casi in cui viene usato impropriamente il termine “bisessualità” possono essere quello di chi si innamora alternativamente di un uomo o di una donna (e qui si tratta di un’oscillazione della propria identità di genere), o quello di chi vive un’oscillazione dell’oggetto del desiderio e si libera dall’incertezza (“sono etero o gay?”) affermando di essere bisessuale.

4. Il rigore di Paterlini sul voler distinguere nettamente il piano dell’orientamento sessuale da quello dell’identità di genere e da quello dei comportamenti risponde almeno a due obiettivi che l’autore persegue.
Uno è quello di “complicare” l’apparato concettuale in modo da renderlo adeguato a cogliere e rispecchiare la complessità della sfera sessuale, complessità che sta emergendo, alle soglie del XXI secolo, in tutta la sua ricchezza e varietà. Anche nella sessualità vissuta e “dichiarata”, come già avvenuto per esempio nella sfera della creatività artistica, si è verificata, e continua ad operare, un’esigenza che è stata propria della cultura novecentesca in generale: quella di superare i limiti della tradizione e di sperimentare tutte le possibilità che gli elementi in gioco offrono. Di fronte a fenomeni nuovi (pensiamo a tutte le possibili combinazioni sommatorie fra le tre variabili orientamento/identità/comportamenti ma anche agli sviluppi e alla diffusione delle cosiddette “perversioni” o alla crescente libertà nello sperimentare forme di sessualità promiscua) occorre moltiplicare i livelli di discorso e chiarire i diversi “assi” su cui si struttura lo “spazio” delle possibilità sessuali.
L’altro obiettivo è quello di costruire un apparato argomentativo in grado di “smontare” l’omofobia minandone gli stessi presupposti: l’uomo etero omofobo odia in realtà la passività perché la associa con la sottomissione. Ritiene che chi si fa penetrare sia un vinto, un essere inferiore (quindi considera inferiori anche le donne!). Associa la virilità con la capacità di penetrare e la femminilità con l’essere penetrati; da questo punto di vista gli omosessuali sono uomini che tradiscono la propria virilità e “si abbassano” al ruolo di femmine. A costui occorre rispondere che ha sbagliato proprio tutto, perché, una volta stabilita la distinzione inziale fra i tre livelli di discorso, ne deriva che i gay non sono effeminati e che spesso preferiscono il ruolo attivo.

5. Un altro modo di “smontare” l’omofobia è quello di demolirne gli argomenti, in primo luogo quello secondo cui l’omosessualità sia “contronatura”. Paterlini presenta con vivacità una serie di contro-argomentazioni, che possiamo sintetizzare in alcuni punti:
a) si scambia il concetto di “natura” con quello di “maggioranza”. È la natura stessa che è fatta di maggioranze e di minoranze.
b) se “contronatura” significa andare contro un destino voluto dal Creatore, allora anche volare in aereo è contronatura, e in generale tutte le invenzioni della tecnica (comprese quelle della medicina…)
c) se “contronatura” allude alla funzione procreativa della sessualità, occorre rispondere che anche i gay possono procreare, e non sempre lo possono gli etero. Inoltre abbiamo ormai capito che l’amore, il sesso, il piacere, sono esperienze che vanno molto al di là di ciò che occorre per procreare, e questa constatazione obbliga a porre, accanto alla domanda “come si diventa omosessuali?”, la domanda “come si diventa eterosessuali?”. Domande a cui, peraltro, finora nessuno è in grado di rispondere con certezza.

6. Dopo aver toccato i temi della masturbazione, della pornografia, della prostituzione e del sesso virtuale (accomunati dalla funzione sostitutiva in presenza di un bisogno sessuale-affettivo insoddisfatto) Paterlini affronta il tema dell’amore in quanto tale. Qui vi è una sua esplicita dichiarazione sui limiti che il pensiero razionale incontra nel descrivere (e quindi anche nello spiegare e nel consigliare) i fenomeni dell’amore: «Non si può “insegnare” l’amore… l’amore e il sesso sono l’indicibile per eccellenza». In questa frase, in verità, si parla anche del sesso, ma di fatto Paterlini, sul sesso, fa abbondante uso della razionalità. Sull’amore invece rimanda essenzialmente all’arte. Se vogliamo aumentare la nostra conoscenza e la nostra saggezza sui fatti dell’amore, Paterilni ci esorta a rivolgerci alla letteratura, e indica anche una serie di autori e di testi.
Nonostante si tratti quindi di un discorso “di frontiera”, al limite del dicibile, Paterlini solleva alcune questioni interessanti e avanza alcune idee.
Che cos’è, veramente, la fedeltà? È la monogamia? È l’avere un partner solo alla volta? Anche qui Paterlini applica la distinzione fra comportamenti e “interiorità”: quello che conta è la fedeltà rispetto all’amore che abbiamo dentro, non il nostro comportamento materiale. In altri termini: se “tradisco” il partner di cui sono innamorato ma la cosa non incide minimamente, per me, sul sentimento che provo per lui, non possiamo parlare di infedeltà. È invece realmente infedele chi si innamora ma poi non è in grado di “tenere” la continuità del sentimento, e, per esempio, cambia continuamente partner (pur stando sempre, rigorosamente, con uno per volta…). Aggiunge anche, ma ammette di stare solo sfiorando una grande e complessa tematica, che a suo parere è possibile amare due persone contemporaneamente (ciò dovrebbe, chiediamo noi, rassicurare o preoccupare i gelosi?…).
Altro tema solo sfiorato, ma molto interessante, è sul ruolo delle fantasie o delle cosiddette “perversioni” (usiamo questo termine in senso freudiano; parlando di questo argomento l’autore non lo usa: il termine compare raramente, nel libro, e con un significato non chiaro. Sembrerebbe usarlo con riferimento solo all’ambito della patologia). La ricchezza della sessualità adulta sta proprio, sostiene Paterlini, nelle contaminazioni con fantasie e fantasmi della sessualità infantile. Purché ciò avvenga consapevolmente, sia un gioco padroneggiato, e non si tratti, invece, di «regressione e malattia».
Vi è infine una tesi su cui l’autore insiste e che collega al tema dell’orientamento sessuale: la vera, grande differenza è tra il fare sesso con/per amore e il farlo senza amore bensì per «amicizia, desiderio, complicità, affetto, gioco, curiosità, sfogo». Il collegamento col discorso sull’orientamento è questo: l’orientamento è vincolante solo sul piano del sesso legato alla passione amorosa, non sul piano del sesso fatto per tutti gli altri motivi sopra elencati. In altri termini: un omosessuale può innamorarsi esclusivamente di una persona dello stesso sesso, mentre può avere rapporti sessuali, senza esserne innamorato, anche con persone di sesso opposto (purchè sia sufficientemente “sciolto”, ovvero «senza troppi blocchi psicologici»). La stessa cosa vale, specularmente, per un eterosessuale. Insomma, l’etichetta etero/omo può essere legittimamente apposta solo andando a vedere, al di là della superficie dei rapporti sessuali “di fatto”, nel profondo del sentimento. Solo l’innamoramento, la passione amorosa, l’Amore, indicano in maniera definitiva l’orientamento.


7. Quando a pagina 19 (citeremo sempre le pagine dell’ultima edizione) definisce i tre concetti base del suo discorso, Paterlini dice che l’identità è stabile mentre i comportamenti sono mutevoli. Sembrerebbe non aver affrontato la questione se l’orientamento sia stabile o mutevole.
Poi però, mentre sta parlando di bisessualità, dice «l’identità come l’orientamento si affermano già nella prima infanzia e non si possono più modificare, fanno parte dello “zoccolo duro” della nostra personalità» (p. 75).
Rispetto all’idea che l’orientamento sia stabile, domando: è quindi impossibile cambiare orientamento a un certo punto nella vita?
Un amico mi racconta che lui ha condotto una vita eterosessuale (con moglie e un figlio), senza dubbi circa il proprio orientamento e con una sessualità vissuta come soddisfacente, e che intorno ai trent’anni, passando un periodo di “transizione” di circa tre anni (un periodo che egli stesso definisce di “crisi esistenziale” e che lo ha portato anche ad iniziare una terapia psicoanalitica), ha “cambiato” orientamento: seguendo un’impulso inizialmente indefinito, ha cominciato ad avere incontri occasionali e in seguito ha avuto storie d’amore con uomini. Oggi si definisce senza dubbi gay. Come considerare un racconto del genere se pensiamo che l’orientamento sia stabile? L’ipotesi potrebbe essere che in tutta la prima fase della sua vita questa persona abbia avuto una totale inconsapevolezza dei suoi “reali desideri”, e si sia comportato seguendo la “norma sociale”. A un certo punto però la verità è emersa dal profondo dell’inconscio e ha dovuto prenderne atto, farci i conti e infine accettarla. Ma è possibile concepire la presenza di un oggetto del desiderio così completamente inconscio? E ancora: a quali desideri corrispondevano i suoi comportamenti sessuali e amorosi fino ai trent’anni? E’ possibile concepire una serie di comportamenti coerenti e continuati per tutta la prima parte di una vita senza che questi comportamenti corrispondano a un desiderio? Notiamo che questo caso è ben diverso da quello di chi, pur cosciente di avere un orientamento omosessuale, decide di rinunciarvi per non subire discriminazioni eccetera. Un’altra ipotesi è che questa persona costituisca un’eccezione, un caso rarissimo che non incide sulla tesi in discussione. Però dal punto di vista del metodo scientifico, un’eccezione non può confermare una regola: un’eccezione (anche una sola) è sufficiente a modificare il nostro modo di considerare quella regola. Non possiamo più parlare, se accettiamo la verità di quell’eccezione, di quella regola come di una regola universale, cioè valida sempre e comunque.
Sempre rispetto a questo argomento, è da rilevare che Paterlini, pur sostenendo in generale la tesi che l’orientamento sia stabile, a un certo punto ammette che possano esistere persone con un orientamento “ballerino” (cfr. p. 76-77), e che queste sentano confusione e legittimamente si interroghino sul proprio orientamento e possano addirittura «scegliere» fra omosessualità e eterosessualità.

8. Nel definire l’oggetto del desiderio (p. 19), come dicevamo sopra (1.), Paterlini tende a non distinguere fra “attrazione fisica” e “innamoramento/amore”. Ma è stata credo esperienza di tutti noi il provare attrazione sessuale per una persona senza esserne innamorati o amarla (perlomeno è un tratto comune del maschile: spesso le donne, sia etero che lesbiche, rivendicano la loro diversità su questo punto e dichiarano di non poter scindere, nella loro esperienza, la sessualità dall’amore…). Ciò non dovrebbe portare a distinguere fra “tipi” o “gradi” di desiderio? Del resto Paterlini stesso, come abbiamo già detto (6.) distingue più avanti (p. 123-124) fra due fondamentali modalità del comportamento sessuale: la presenza o l’assenza della passione amorosa, e anzi usa questa distinzione per chiarire meglio la sua idea dell’orientamento sessuale. L’elenco usato da Paterlini per illustrare il “sesso senza amore” ci lascia per certi versi perplessi: si tratterebbe di un sesso fatto «per amicizia, desiderio, complicità, affetto, gioco, curiosità, sfogo» Per amicizia? Ma l’amicizia non si definisce proprio, fra le altre cose, per l’assenza della sessualità? Per desiderio? Non stiamo proprio cercando di distinguere esperienze all’interno del concetto generale di desiderio? Qui probabilmente Paterlini pensa all’attrazione “fisica”, alla “voglia” puramente sessuale. Affetto? Ecco: non potremmo definire l’affetto come una forma attenuata di amore?
La nostra proposta è: si potrebbe concepire un continuum dove al grado zero mettiamo la “pura attrazione sessuale” e al grado più alto mettiamo l’attrazione amorosa in senso pieno (comprendente anche, ovviamente, l’aspetto erotico), con una serie di gradi intermedi (per esempio il sesso fatto “per affetto”, come dice Paterlini). Un modo per capire se questa idea ha una certa fondatezza è porsi la domanda: ha senso dire «Sono un po’ innamorato.»? Se chiediamo a una persona di spiegarci quali sentimenti provi nei confronti di un’altra e ci venisse risposto “ne sono un po’ innamorato” ci riterremmo soddisfatti? Forse potremmo pensare che si sta innamorando, oppure potremmo pensare che ha le idee confuse. Alcuni potrebbero concludere che in realtà non è innamorato, dato che non è sicuro e usa questa espressione intermedia.
A complicare una eventuale ricerca sulla “tipologia del desiderio” andrebbe anche considerato che può esistere amore senza sesso… Pensiamo ad esempio alle coppie dove non c’è più sesso ma che continuano a stare insieme per anni. Come chiamiamo il sentimento che esiste in questi casi? Oppure pensiamo alle coppie che rimandano la sessualità a dopo il matrimonio… Un altro caso può essere quello di un gay che si “innamora” di una donna, pur senza provare nei suoi confronti attrazione fisica: certo non si tratterà di Amore, ma di qualcosa di simile sì, una sorta di “innamoramento di testa”, fatto di stima, ammirazione, grande confidenza, forte simpatia.
Rispetto all’idea di Paterlini sulla “legge” della complementarietà del desiderio (cfr. 1.) si potrebbe provare a rovesciare tale legge e ipotizzare: si cerca sempre chi ci somiglia, almeno in certi aspetti… se osserviamo i componenti di una coppia, etero o omo, spesso notiamo che hanno molte cose in comune (è molto difficile, per esempio, che si mettano insieme persone che hanno orientamenti politici opposti). Oppure si potrebbe ipotizzare che vi siano relazioni basate principalmente sulla complementarietà e relazioni basate principalmente sulla somiglianza.

9. A proposito della stabilità dell’identità va rilevato che Paterlini, dopo averla affermata come presupposto teorico e come verità empirica (p. 19 e p. 47) parlando del travestitismo dice che si tratta di «persone che non si sentono stabilmente appartenenti al sesso opposto» (p. 56), cioè persone con un’identità di genere confusa o altalenante. Aggiunge però che ne sappiamo ancora troppo poco, e che potrebbe anche trattarsi non di una questione di identità ma di un “comportamento”. Resta il fatto che classifica i travestiti come appartenenti all’area dell’eterosessualità perché «come partner, cercano una donna» (p. 57). Qui c’è qualcosa che non torna. Prendiamo, per semplificare, solo il caso di persone che sono biologicamente uomini. Se transessuali o se effeminati, Paterlini li classifica come etero perché cercano uomini partendo da un sentirsi (più o meno intenso) donne. Se travestiti, li classifica etero perché cercano donne partendo dal loro sentirsi uomini. Ma allora come consideriamo il loro desiderio quando si travestono e assumono la loro identità femminile? Se continuano a cercare donne dovremmo parlare di omosessualità! Insomma, da un lato Paterlini usa il travestitismo come una sorta di anello di congiunzione fra transessualità ed effeminatezza, dall’altro classifica il travestitismo come appartenete all’eterosessualità non per il desiderio provato quando si travestono, ma per il desiderio provato quando sono in abiti maschili.

10. Se transessuali, travestiti ed effeminati non appartengono al mondo gay-lesbico ma costituiscono delle varianti nell’ambito dell’eterosessualità, perché, di fatto, nella società, hanno scelto di porsi a fianco o all’interno del mondo omosessuale e di “lottare” politicamente insieme agli omosessuali? Paterlini sembrerebbe ritenere più efficace, dal punto di vista della lotta contro l’omofobia, una separazione. Esagerando un po’ le cose, potremmo dire che Paterlini, rivendicando la netta distinzione fra questioni di orientamento e questioni di identità, lavora nella direzione della costruzione di un’immagine “pulita”, “purificata”, degli omosessuali (i “veri” gay non sono gli effeminati…) che ritiene (oltre che più vera dal punto di vista scientifico) più forte nella battaglia contro l’omofobia.

11. Il capitolo sull’effeminatezza è corto ma molto intricato, quasi labirintico. All’inizio (p. 58) afferma che l’effeminatezza è un fenomeno che rimane nel campo dell’eterosessualità, da cui deriva la tesi, paradossale ma intrigante, che la “checca” non è un omosessuale. Poi, per avanzare una «dimostrazione empirica» di questa tesi, afferma che «ci sono gay effeminati e gay non effeminati; ci sono eterosessuali effeminati ed eterosessuali non effeminati» quindi l’elemento dell’effeminatezza non può essere usato per distinguere omo da etero. Ma come può parlare di dimostrazione empirica se ciò che deve dimostrare è che non esistono in realtà gay effeminati? Si potrebbe allora interpretare questa dimostrazione come basata sul fatto che il termine “effeminato” viene usato per indicare sia uomini ritenuti gay sia uomini ritenuti etero. Ma anche in questo caso il nesso fra dimostrazione e tesi da dimostrare non ci sembra corretto. Infatti la tesi di Paterlini si potrebbe anche riformulare dicendo che secondo lui è sbagliato applicare il termine “effeminato” a una persona gay. Come può allora richiamare l’uso corrente del termine “effeminato” per sostenere una tesi che vuole andare contro l’uso corrente?
Inoltre, per coerenza, Paterlini dovrebbe anche rifiutare l’applicazione del termine “effeminato” a un uomo etero: infatti un uomo effeminato che andasse cercando le donne dovrebbe in realtà considerarsi un omosessuale! In definitiva, per coerenza Paterlini dovrebbe rifutare completamente l’uso del termine “effeminato” dal momento che qualsiasi applicazione di tale termine risulterebbe scorretta…
Forse proprio considerando questi esiti paradossali, Paterlini poco più avanti riformula la sua tesi in maniera meno drastica: «quando la “dose” di femminilità in un uomo raggiunge il livello della vera effeminatezza, allora forse sì, in questo caso specifico possiamo azzardare che un etero effeminato quando cerca una donna, cerchi sì un rapporto eterosessuale, ma con una “contaminazione” omosessuale; esattamente come un omosessuale effeminato quando cerca un rapporto omosessuale vive contemporaneamente una “contaminazione” eterosessuale».
Certo che riformulata così la sua tesi di partenza perde la sua paradossalità e anche le sue conseguenze “dirompenti” sul piano politico. La conclusione del capitolo sull’effeminatezza è però ancora una volta sorprendente: «Per questo gli effeminati − etero o omo che siano − si possono considerare gli unici veri bisessuali esistenti sulla terra. Forse.». La sorpresa consiste nel fatto che, come già sappiamo, per Paterlini la “vera” bisessualità non esiste!

12. Anche la distinzione fra comportamenti e orientamento sessuale porta, se intesa in senso netto e drastico, a conseguenze secondo noi discutibili.
E’ sicuramente vero che non possiamo dedurre l’orientamento sessuale di qualcuno guardando solo ai suoi comportamenti. I numerosi casi di omosessuali che per “adeguarsi” alla “normalità” rinunciano a realizzare i loro desideri e conducono una vita etero ci insegnano che è possibile reprimersi, che è possibile avere un desiderio anche se non lo si realizza mai o se lo si realizza molto raramente.
Ma questo argomento non regge nel caso di un eterosessuale che ha, più o meno occasionalmente, comportamenti omosessuali: nessuna norma morale o religiosa lo spinge a compierli: perché lo fa? Un’ipotesi potrebbe essere quella dell’esistenza di manifestazioni del desiderio nelle quali il desiderio non ha di per sé oggetto, e si concretizza poi in certe determinate situazioni anche andando ad indirizzarsi su oggetti che “normalmente” non lo orientano. Oppure possiamo pensare a situazioni “forzate”, per esempio le prigioni, nelle quali l’impossibilità di realizzare il desiderio etero può portare a un cambio di rotta del desiderio stesso.
Paterlini, a proposito degli eterosessuali che hanno rapporti occasionali di tipo omosessuale, porta l’esempio di Rocco, il protagonista di Porci con le ali, un eterosessuale che a un certo punto della storia fa l’amore con il suo amico Marcello «per puro piacere, per affetto, curiosità». Come sappiamo, il criterio che consente di distinguere, secondo Paterlini, è la presenza o l’assenza dell’amore. Rocco non è innamorato di Marcello, quindi è e rimane eterosessuale nonostante le avventure con Marcello. Rocco fa del sesso con Marcello per “piacere”, “affetto”, “curiosità”… Ma tutto ciò non si può riassumere nel concetto di “desiderio”? Non possiamo dire che Rocco fa l’amore con Marcello perché in quel momento lo desidera, ne ha voglia? E l’orientamento non consiste nella scelta dell’oggetto del desiderio?
Si dirà: ma Rocco ha la maggior parte delle sue storie con ragazze, quindi è eterosessuale! Sì, ma la situazione di Rocco non si potrebbe descrivere più precisamente usando la scala di Kinsey, o magari una sua versione riveduta e corretta? Kinsey propose nel 1948 una scala a sette gradini che serviva a descrivere le persone rispetto al loro orientamento sessuale:

0 − Eterosessuale esclusivo, mai omosessuale
1 − Eterosessuale prevalente, solo occasionalmente omosessuale
2 − Eterosessuale prevalente, più che occasionalmente omosessuale
3 − Egualmente eterosessuale e omosessuale
4 − Omosessuale prevalente, più che occasionalmente eterosessuale
5 − Omosessuale prevalente, solo occasionalmente eterosessuale.
6 − Omosessuale esclusivo, mai eterosessuale.

Rocco si potrebbe collocare al gradino 1. L’idea interessante, al di là del numero di gradini, è quella di concepire l’orientamento sessuale non in modo dicotomico ma come polarizzazione di un continuum. Probabilmente Paterlini considera questa scala come una scala che misura i comportamenti e non l’orientamento. Ma la nostra obiezione è la seguente: un comportamento sessuale che non sia in alcun modo indotto (né dalla violenza fisica né dalla forza coercitiva delle norme morali-sociali) deve corrispondere a un desiderio. In altri termini: non consideriamo scindibili in maniera netta, così come propone Paterlini, i comportamenti e l’orientamento. Alla continuità fra sesso e amore (come abbiamo proposto sopra − cfr. 8.) potrebbe corrispondere una continuità fra eterosessualità e omosessualità. Si potrebbe inoltre considerare come rarissima o prossima allo zero la situazione 3 nella scala di Kinsey, la famosa bisessualità. Ma si potrebbe anche usare il termine “bisessualità” per comprendere tutte le situazioni dalla 1 alla 5 nella medesima scala. Considerando le cose in questo modo, sarebbero probabilmente più numerosi i bisessuali rispetto agli etero esclusivi e agli omo esclusivi. (Del resto lo stesso Paterlini, parlando delle radici dell’omofobia, non esclude che i maschi etero abbiano tutti delle potenzialità omosessuali: «gli etero sono terrorizzati, peggio ossessionati dalla fantasia di essere penetrati. E nello stesso tempo […] sembra siano confusamente ma irresistibilmente attratti, e ossessionati, dalla voglia non solo di penetrare le donne, ma un altro maschio.». I corsivi sono dell’autore).
Per tornare sulla questione della bisessualità: può un comportamento bisessuale costante (che Paterlini ammette) non corrispondere a un desiderio bisessuale? Ancora una volta il criterio fondamentale è per Paterlini la presenza dell’amore. Scrive: «È possibile […] andare a letto con chiunque, stabilire una buona intesa affettiva, costruire un bellissimo “matrimonio”, magari. Ma un vero innamoramento, un totale appagamento scordateveli.». Chiediamo: cosa dobbiamo intendere con “appagamento” se non la soddisfazione sessuale-affettiva? Proviamo a ribaltare il discorso di Paterlini e diciamo: il vero innamoramento può avvenire solo laddove l’intesa sessuale è profonda. La profonda attrazione sessuale può quindi essere usata come criterio alternativo per valutare l’orientamento. Una spia del proprio desiderio sessuale sono le fantasie sessuali (sempre che la persona sia sufficientemente “emancipata” da permettersele con libertà). Ebbene, come Paterlini ritiene impossibile che qualcuno possa innamorarsi indifferentemente di un uomo o di una donna (la situazione 3 nella scala Kinsey), altri potrebbero ritenere impossibile che si possano avere fantasie sessuali indifferentemente etero o omo. La questione se esista o meno un orientamento sessuale perfettamente in equilibrio tra omosessualità ed eterosessualità è forse, in realtà, poco interessante. Anche ammettendone l’impossibilità (o empirica o teorica o di entrambi i tipi), resta il fatto che posso chiamare “bisessuale” chi ha, poniamo, una componente etero al 51% e omo al 49%. Oppure posso decidere che l’unico significato legittimo è quello 50%-50% e dire: i bisessuali non esistono. Ma perché negarsi una categoria in più, per dare un nome a quelle persone, per quanto poche, che effettivamente oscillano fra comportamenti etero e comportamenti omo?
Paterlini però, su questi ultimi, ha una sua tesi: o si tratta unicamente di comportamenti (ma allora riproponiamo la domanda che abbiamo posto all’inizio del paragrafo precedente) oppure, nel caso si innamorino alternativamente di un uomo o di una donna si tratterebbe di persone con una identità altalenante: cercano un uomo quando si sentono donne e cercano una donna quando si sentono uomini. Si tratterebbe, quindi, in ogni di caso di eterosessualità.

13. Concludiamo con qualche osservazione sullo stile filosofico-argomentativo di Paterlini.
In un punto del libro Paterlini sembra “svelare” la sua filosofia: «non è quello che si vede, quello che si fa che conta, ma il come, il perché, il come ci si arriva. […] raramente ciò che si vede corrisponde alla realtà (e al senso) delle cose. Molto spesso, ciò che si svolge sotto i nostri occhi creduloni e ingenui non è ciò che succede realmente». Possiamo quindi definire Paterlini un anti-fenomenologo? Un anti-wittgensteiniano? Un metafisico? Certamente un realista, ma un realista per il quale le intenzioni contano più dei fatti, e forse più correttamente dovremmo dire che per Paterlini contano i sentimenti più dei comportamenti. Un atteggiamento che su alcune questioni rischia, come abbiamo visto, di creare qualche complicazione eccessiva e qualche contraddizione. Ma fino a un certo punto Paterlini ha sicuramente ragione: i desideri possono restare nascosti, possono non essere visibili… Del resto la vita psichica non si vede, direttamente… D’altra parte si potrebbe anche sostenere che tutto ciò che sappiamo della vita psichica degli altri lo dobbiamo inferire dal loro comportamento, dalle espressioni del loro volto, dalle loro dichiarazioni (ufficiali, private, confidenziali ecc.). Non abbiamo accesso diretto ai desideri altrui, quindi non possiamo che passare, per capirli, attraverso ciò che si vede, si sente ecc. Paterlini presuppone una distinzione forte fra apparenza (ciò che si vede) e realtà (il senso, il perché di quello che si vede. A questa distinzione si può obiettare che se volessimo prescindere completamente dall’apparenza perderemmo con essa anche qualsiasi appiglio per cogliere la realtà…
Un altro passo illuminante circa la filosofia e il metodo di Paterlini è il seguente: «Siamo (…) interessati alle contraddizioni interne al discorso che si fa abitualmente, alle incongruenza macroscopiche del famoso “senso comune”» (p. 103). Qui arriviamo a un punto chiave per capire la forza delle argomentazioni di Paterlini. L’interesse maggiore delle sue tesi sta proprio, secondo noi, nell’effetto “spiazzante” che hanno sulle nostre opinioni più consolidate. Spesso il suo libro riesce a scuoterci proprio sui punti che credevamo più scontati e produce un benefico effetto di “confusione” che predispone un avvicinamento alla verità. C’è in questo senso un’abilità propriamente socratica di Paterlini, applicata a un campo dove a nostro avviso c’è proprio bisogno di questo: mettere in discussione le certezze tradizionali e portare le persone, finalmente, ad assumere un atteggiamento di ricerca e di riflessione. Un esempio? Domande come questa (una nostra riformulazione di quella da lui posta a p. 23): sono più simili fra loro due omosessuali che hanno solo l’omosessualità in comune o due persone che hanno solo l’orientamento sessuale come differenza?