7 gennaio 2015

Una lezione di democrazia (e anche: sulla falsa contrapposizione tra emozione e ragione)

In questo intervento (per il ciclo Le parole della politica organizzato da laPolis, Emozione/Ragione: 16 aprile 2013, Parma, Palazzo Giordani) Franca D'Agostini lega insieme le sue riflessioni sulla logica, l'argomentazione, la verità, la menzogna, in una divertita lezione che propone una tesi fondamentale sull'essenza della democrazia.
Ethos, Pathos e Logos stanno al dibattito pubblico come Melodia, Ritmo e Armonia stanno alla musica. Il politico ideale non deve amare il potere, deve invece avere il pathos del logos, deve saper dire la verità, amarla e farla valere, e ci vuole una grandissima capacità immaginativa per poterlo fare.

6 gennaio 2015

Sulla rinascita della metafisica




Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, della Seconda parte di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini. I capitoli presi in esame sono: 6, 8, 10, 11 e le Conclusioni. Si tratta sostanzialmente, come si vedrà, di una collazione di lunghe citazioni dal testo, scelte secondo una certa linea di interesse. 
La scelta e la linea ricostruttiva non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post ho aggiunto, in grassetto, i sommari di tutti i capitoli della parte seconda, scritti dall'autrice (pubblicati nel blog Filosofia pubblica), in modo che sia possibile farsi un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dall'impostazione del testo originale.
G.N.



Le tre fonti della metafisica, le domande sulla realtà, il significato di "reale", il problema epistemologico (cap. 6)

Qui D’Agostini fornisce un chiarimento essenziale sulle fonti su cui la ricerca metafisica può e deve basarsi. Innanzitutto non si può dimenticare il senso comune, inteso come «le credenze condivise che ci orientano nell’uso del linguaggio» o anche, in altri termini, «l’esperienza condivisa depositata nell’uso del linguaggio». Poi (ma sulla centralità del riferimento alla scienza cfr. cap. 8.) occorre la scienza, sempre aperta alla propria rivedibilità, e infine l’”evidenza soggettiva”.



Basta il senso comune? Credo di no. Un buon lavoro filosofico, specie in metafisica, non può dimenticare la scienza. Non soltanto perché con scienza intendiamo normalmente l’impresa umana di ricerca dell’oggettività (e in questo senso, suggerirei, la filosofia fa parte della scienza), ma anche perché la scienza – con tutti i suoi problemi e i suoi limiti – ci dà una buona parte dei contenuti del vero e del reale, che ci servono per ragionare e pensare.

Diceva Kant nei Sogni di un visionario: non puoi dire che esistono gli spiriti, perché il nostro linguaggio fisico (e si tratta di fisica dell’epoca di Kant) esclude la possibilità che due corpi possano essere situati nella stessa collocazione spazio- temporale. La scienza dunque contribuisce alla descrizione del “mondo in comune” che secondo Kant è oggetto della metafisica. E – se è buona scienza – aiuta a descrivere tale mondo, lasciando però aperta la rivedibilità, su cui appunto, di volta in volta, l’uso critico dei concetti R (realtà) e V (verità) dovrebbe intervenire.

Abbiamo dunque un primo orientamento metodologico: il metafisico, cioè colui che si occupa di esaminare filosoficamente la realtà, ha come punti di riferimento normativi, o se volete “fondamenti”, il senso comune e la scienza. Può anzi deve a volte entrare criticamente in dialogo con loro (specie se e quando, come vedremo, emergono conflitti); ma ne deve tenere conto. Entrambi infatti sono le principali “fonti” di cui ci serviamo per stabilire che cosa è reale e che cosa non lo è.

Esiste anche una terza fonte, che è considerata la prima e più importante dal punto di vista empirista: l’evidenza soggettiva.
Preferisco però usare un’altra espressione, che prendo da David Lewis: il de se nunc, che si tradurrebbe con “il su se stessi qui e ora”, espressione antipatica, in latino suona meglio. In pratica, vuol dire che la terza fonte che mi parla della realtà non sono tanto io, ma piuttosto di volta in volta un certo contenuto che riguarda il mio incontro con la realtà (per questo il contenuto in questione è de se, e non de re).

Il quadro è allora completo. Scienza, esperienza condivisa, de se nunc (osservazione empirica), sono le tre fonti di cui ci serviamo per stabilire che cosa è R e che cosa non lo è. Come vedremo, molte discussioni (non tutte) riguardano precisamente casi di conflitto tra le tre, oppure disaccordi tra teorie che stabiliscono un primato di una o dell’altra fonte, oppure i limiti di ciascuna di loro.

Le domande filosofiche relative alla realtà (tolta “la realtà esiste?”) possono essere tre:

I. [PROBLEMA CONCETTUALE] che cosa intendiamo quando usiamo la parola “realtà”, ossia attribuiamo i predicati (le proprietà) “è reale”, “esiste”, a qualche oggetto? [in nota:] Il mainstream analitico ritiene che l’esistenza non sia una proprietà, e conseguentemente non sia un predicato: ma questo punto di vista (che viene attribuito erroneamente a Kant) è estremamente discutibile. Bisogna ritenere piuttosto che ‘esistere’, ‘essere reale’ siano se mai predicati di un genere speciale. È questo in definitiva ciò che intendeva Aristotele inserendo la sostanza (prima e seconda) tra le categorie, che Severino Boezio chiamò per l’appunto praedicamenta. Ma di ciò meglio più avanti.

II. [PROBLEMA METAFISICO VERO E PROPRIO] che cosa è reale, esistente, e come è fatto?
III. [PROBLEMA EPISTEMOLOGICO] a quali condizioni possiamo stabilire che un oggetto è reale, esiste?

Queste tre domande circoscrivono la “questione del realismo” nelle possibili forme in cui può presentarsi. Tutte e tre le domande riguardano la metafisica intesa genericamente come riflessione filosofica sulla realtà. Ma solo le domande del tipo II sono domande metafisiche in senso stretto. E più precisamente, come si usa dire nella filosofia analitica: la domanda “che cosa esiste?” definisce il campo dell’ontologia e la domanda “come è fatto ciò che esiste?” definisce il campo della metafisica. Le altre non sono tanto di metafisica quanto di analisi concettuale (la I) e di epistemologia (la III).

in tutte e tre le analisi è facile che la filosofia debba incrociare i correlati scientifici. Nel primo caso l’analisi del concetto R da parte dei linguisti, nel secondo le analisi dei fisici, e nel terzo quelle degli psicologi o degli scienziati cognitivi, e anche eventualmente degli antropologi, o dei sociologi ecc.

Il vero problema del «realismo» come tale, è solo il secondo, cioè la prospettiva della metafisica. Ed è in relazione alle domande di tipo II che il ricorso alla scienza sembra inaggirabile: non è tanto facile giustificare per esempio la mia tesi secondo cui il tuo mal di testa non è R, mentre questo tavolo lo è, se non mi appello alla fisica e alla biologia, per esempio dicendo: è vero che hai mal di testa, ma l’“oggetto” denominato “tuo mal di testa” non c’è propriamente; se mai, sopravviene su un certo stato biochimico dell’oggetto fisico che è il tuo corpo.

Ma sia i neokantiani (in senso ampio) sia i neopositivisti, pur con articolazioni diverse delle loro posizioni, interpretano questo punto in senso esclusivo: non è più la filosofia che deve occuparsi di realtà, perché ormai questo compito viene assolto dalle scienze.

[nota 12] “realtà” è il nome per indicare il predicato “x è reale”, e il predicato è il nome per indicare la proprietà delle cose che sono “reali”. Dunque il concetto di realtà è la funzione linguistica e se volete mentale che intende riferirsi a (o esprimere) tale proprietà.
C’è un’espressione di Charles S. Peirce che è utile adottare: il reale è l’It, l’esso generico non specificato che colgo intorno a me. Apro gli occhi (mi sveglio?), ed ecco cose alberi strade fiori città ecc. È almeno inizialmente un utile chiarimento: con R intendo il tutto in cui sto, che mi circonda e mi costituisce. […]
Incontro continuamente l’It, anzi ci sto dentro, e come dire ci affogo, ma perlopiù non lo vedo affatto, e non soltanto non lo vedo, ma non ci penso affatto. […] Vediamo allora che il concetto R, come il concetto V (verità), e altri superconcetti filosofici, è dispensabile: possiamo benissimo non usarlo, né pensarci.

Ma possiamo, visto che è dispensabile, sbarazzarci di R?

Sappiamo già come funziona l’argomento: se dici: “sbarazziamoci del concetto R” devi aver notato delle circostanze effettive, appunto R, che ti hanno fatto ritenere che R sia concetto da non usarsi. […] Infatti: R e V sono concetti dispensabili, ma misteriosamente sono anche ubiqui, stanno ovunque nei nostri discorsi e ragionamenti.

Ecco allora la trappola della metafisica: che R e V e altri superconcetti che ne derivano sono confusi (per eccesso di vastità), confondenti (perché non si vedono mai ma se mai si “vivono”), e per di più non riusciamo neppure a sbarazzarcene!

Che fare? L’unica soluzione è capire perché mai li usiamo e a che cosa esattamente servono.

Il concetto R serve a discutere, nei contesti in cui qualcuno parla di cose che non esistono oppure afferma l’inesistenza di cose reali.

Ecco dunque il punto: concetti come R e V sono concetti discussivi, e inferenziali, in una parola, se si vuole scettici, in quanto appartengono alla skepsis, la ricerca. […]
la filosofia, specie quella che si occupa dei concetti fondamentali di verità-realtà-bene, è un’arte critica, e di speciale utilità quando tutti discutono, non ci si capisce, e non si riesce a trovare un accordo: perché alcuni vengono ingannati, altri ingannano, e alcuni credono (o fingono) di sapere e non sanno.


R è il nome di due problemi
Ma il dato per noi cruciale, è che ci sono due fondamentali ragioni (scettiche) per cui R è stato creato.
La prima è che:

alcune cose sembrano esistere (essere R), e altre no, ma non è facile distinguere le une dalle altre, ed esistono (sono esistite) controversie su questo punto.

La seconda è:

tutto ciò che chiamo R sembra stare nel qui e ora della mia esperienza, dunque l’R non è realmente R, ma è piuttosto “mi risulta R”, o “credo che sia R”.

Notate che queste due ragioni, proprio perché sono ragioni scettiche, problematiche, sono anche due fondamentali difficoltà nell’assegnazione di R. Entrambe ci confermano ciò che bisognerebbe sempre ricordare: che i concetti filosofici sono nomi di problemi.

Il problema di come abbiamo accesso alla realtà (il “problema epistemologico”) è il problema di come superare il solipsismo, il soggettivismo, l’idealismo soggettivo, il fenomenismo scettico; in altri termini è il “problema del mondo esterno”.


È abbastanza facile vedere che il problema nasce dall’antico scetticismo empirista, vale a dire dalla metafisica basata sul de se nunc diventato unica fonte. E forse in questa prospettiva si vede già l’errore. Ma intanto, notate che l’idea di partenza è l’idea che sia impossibile “uscire” dal campo definito dell’esperienza, per esplorare che cosa c’è fuori. Ne segue che qualsiasi cosa io vi dica del “fuori” (della realtà come è in sé) potrebbe essere vero, e non avrete argomenti per dire “no, non è così”. È questo peraltro il tema capitale che porta l’empirista, saldamente collocato nel de se nunc, a sbarazzarsi della metafisica, ossia del pensiero del “fuori”. […]
Allora ecco la questione di fondo, segnalata dai metafisici eredi di Kant (e anzitutto da Hegel): che non usciamo dall’autocontraddizione fenomenista perché (e se) non abbiamo la metafisica, come disciplina o campo di ricerca; perché ci neghiamo il diritto di rivedere e ridiscutere proprio quella narrazione in fondo minoritaria che dice: solo il de se nunc è affidabile, tutto il resto sta “fuori”, e non è possibile pronunciarsi sul fuori.

Vediamo dunque l’utilità di ricordare le tre fonti della metafisica, di cui si è parlato in apertura: l’esperienza comune (depositata nel linguaggio), la scienza, e l’evidenza soggettiva. E vediamo anche la necessità di non considerare l’una dominante rispetto all’altra. Perché se deciderò che l’unica o la primaria fonte normativa in metafisica è l’io (specie inteso come soggettività empirica), mi trovo a dover amministrare un “fuori” che ho già descritto come tale, e che però vieto a chiunque altro di descrivere.

La fisica contamporanea è la nuova metafisica? Il realismo scientifico e il concetto di "scienza totale" (cap. 8)

Per rispondere alle domande propriamente metafisiche, di tipo II, si direbbe che la fonte primaria, in quanto ricerca di conoscenza oggettiva, sia la scienza. In questo capitolo D’Agostini, attraverso il ricorso alla nozione di “scienza totale”, chiarisce quale dovrebbe essere il corretto rapporto tra ricerca metafisica e ricerche scientifiche.



L’idea che spesso o in linea di massima le teorie scientifiche catturino la verità sulla realtà è non soltanto plausibile ma direi ineccepibile. Sarebbe davvero sorprendente se l’enorme apparato di controllo dei fatti che chiamiamo scienza non riuscisse mai a farlo, o vi riuscisse solo molto raramente. Se però ricordiamo che la domanda non è: “la scienza ci dice come è fatta la realtà?” ma: “dobbiamo fidarci dell’immagine scientifica della realtà?” emerge con chiarezza che il problema si pone a causa di un conflitto di affidabilità, e più propriamente a causa del fatto che la «struttura profonda» della realtà, così come ci è rivelata dalla scienza, in particolare dalla fisica, non coincide con l’immagine della realtà che ci è rivelata dalle comuni intuizioni empiriche. […]
Sembra emergere allora il primo dibattito propriamente metafisico, perché appunto riguarda la «struttura profonda» della realtà, così come è in sé, e non i nostri modi di conoscerla, o di giustificare le conoscenze che ne abbiamo. […]
[…] La questione (metafisica) non è se sia meglio credere alla scienza o al senso comune, o se gli oggetti che incontriamo nell’evidenza empirica e nella percezione ci siano, e siano quel che sembrano essere, ma quale sia la loro struttura interna e «indipendente» dal nostro modo di incontrarli (attraverso la percezione, o in qualsiasi altro modo). […]
Conviene soffermarsi sulla natura della domanda “gli oggetti esistenti sono quelli previsti dalla fisica, o quelli previsti dal senso comune?”.

Chi formula una domanda di questo tipo sta in verità chiedendo: “come è fatto ciò che esiste?” ma anche: “chi è autorizzato a dirmi come è fatto ciò che esiste, nel caso (come è il caso) sorgano risposte contrastanti?”. […]
È proprio su questa base in effetti che Heidegger e altri autori, nel trattare la «questione dell’essere», tendono ad associare questioni metafisiche e questioni metodologiche. E spesso, nel fare ciò, assumono una posizione critica nei confronti della scienza. Però non è tanto alla “scienza” come tale (incomprensibile astrazione) che dovrebbero opporsi, ma piuttosto all’idea che la scienza come apparato istituzionale sia l’unica e conclusiva depositaria della verità circa l’esistente. Ossia non possa essere esaminata criticamente, discussa e messa in dubbio. E questa idea non è coltivata né difesa da nessun “scienziato” dotato di ragione. […]
È vero che quel che incontriamo sono gli oggetti del senso comune, ma non è questo l’oggetto della metafisica, e non è questo che si richiedeva. […]
Invece, quando chiedo se e come questi oggetti esistano, e quale sia la loro costituzione interna, in base alla quale possiamo dire che sono esistenti, allora è naturale che io faccia riferimento alla fisica, o ad altre scienze. La risposta metodologica allora a mio avviso diventa più facile. Se domando: “come è fatta la realtà?” e voglio dare una risposta filosofica, ma scientifica (intendendo per scienza una ricerca basata sul «mondo in comune», come dice Kant, e non sulle mie esperienze individuali), allora devo certamente confrontarmi con la realtà così come è esaminata dalle altre scienze, ed essenzialmente dovrò dare fiducia alla fisica. […]
Se invece domando: “come è fatta la realtà che incontro nella vita quotidiana e nei miei confronti discussivi?” è chiaro che la risposta è diversa. Ma è anche diverso il territorio entro cui mi muovo nel cercare di rispondere, ossia l’episteme, l’oggetto della mia ricerca. Nel primo caso mi sto occupando di metafisica. Nel secondo mi sto occupando di quella zona di intersezione tra metafisica ed epistemologia che è precisamente il terreno messo in luce da Kant con la sua filosofia trascendentale.

Quanto alla «struttura profonda» della realtà, come si è visto la scienza ha di solito un primato. Se emerge una divergenza, occorrerà una riflessione filosofica, che cerchi di capire come in definitiva stanno le cose. E si è suggerito che chi elude la scienza in questo ambito sostanzialmente esce dalla metafisica, ovvero non si interessa più della struttura interna della realtà (come è fatta la realtà) ma finisce per affrontare l’altro problema (il III): come possiamo conoscerla.

Ma a quale scienza ci riferiamo quando parliamo di un primato della scienza in metafisica? La prima intuizione è che tale primato vale se la scienza stessa non esclude la metafisica, o meglio non taglia fuori la possibilità autocorrettiva e autoriflessiva (che le provenga dalla filosofia o da lei stessa). La mediazione tra senso comune e scienza fornita dalla filosofia può rivelare l’errore, evitando con ciò che il potere della scienza travalichi i suoi stessi compiti e obiettivi.

Ma più propriamente, il concetto di «scienza totale» spiega bene quale sia la “scienza” di cui parliamo in metafisica quando diciamo che la scienza ci offre informazioni sulla realtà. La scienza totale è semplicemente l’impresa scientifica nella sua totalità, non è solo il deposito di conoscenze acquisite da una certa scienza, in una certa fase di sviluppo. La scienza totale è per esempio per i fisicalisti la «fisica completa», l’insieme compiuto di tutte le cognizioni fisiche.

La scienza come fatto storicamente determinato può contenere falsità ed errori, e può dirci esistenti cose che non esistono, o negare l’esistenza di cose che invece esistono a tutti gli effetti. Può anche essere inconsistente, ossia contenere contraddizioni e dissonanze, ed è facile che sia così, perché la quantità di diverse scienze che oggi abitano il territorio della ragione è davvero ampia, e sono diversificati sia gli oggetti sia i metodi. Questo però capita anche al senso comune, e anche al de se nunc. Ci sono errori e dissonanze tanto nella scienza quanto nel “sistema” del senso comune, quanto nelle percezioni di un individuo singolo. L’aspetto interessante della metafisica consiste precisamente nella mediazione dialettica che opera sulle tre fonti.

Nell’ascoltare la scienza circa il concetto R dobbiamo ricordare allora che è per ovvie ragioni incompleta, deve ancora capire e conquistare molte cose. Dunque quando parliamo di scienza in metafisica ci confrontiamo nei singoli casi con la scienza attuale, ma la concepiamo (idealtipicamente) come “scienza completa”.

Il realismo presupposto da qualsiasi argomento o discussione (cap. 10)



Se x è un fatto allora x sussiste indipendentemente dai discorsi e pensieri che ne parlano [nella nota 3 del Cap. 10]



1. qualcosa è reale, o anche: esistono fatti;
2. c’è una sola descrizione vera dei fatti;
3. possiamo a volte formulare descrizioni vere dei fatti e riconoscere come vera o falsa una data descrizione. […]

[…] quando ragioniamo e discutiamo usiamo le funzioni concettuali “questo è vero”, “questo è un fatto”, “le cose stanno così” esattamente in questo modo. Dunque le funzioni di cui sopra sono particolarmente importanti in logica, e in generale nella vita pubblica e privata degli esseri umani liberi, visto che dai ragionamenti più o meno sbagliati o giusti di un individuo libero dipendono le sue decisioni e azioni. [in nota:] Di qui il legame molto stretto che si determina tra «filosofia prima» e democrazia. […]
Tutto ciò è già molto chiaro nel libro Gamma della Metafisica di Aristotele. Lì appare anche con chiarezza che non soltanto l’antirealismo, ma in generale ogni posizione metateorica negativa (relativismo, scetticismo ecc.) è destinata all’autocontraddizione. Ed è destinata all’autocontraddizione, se e in quanto si accetta il quadro logico-ontologico definito dalle tre tesi. Ma tale quadro è (per Aristotele) inaggirabile, se si intende argomentare le proprie tesi in modo valido. Ecco dunque che la dimostrazione non è circolare: il realismo metafisico (in questa versione preliminare) si basa sulla logica, e la logica trae origine dalla necessità di ragionare, discutere, riflettere, argomentare, per la vita di un individuo libero. Attenzione: parliamo di logica non come apparato consolidato di dottrine più o meno “classiche”, ma come uso delle forme logiche.
[…] si tratta ora di chiarire meglio perché e come si determini questo passaggio tipicamente aristotelico dalla logica alla metafisica. […]
Il carattere irriducibile di R è legato a una visione del linguaggio che non sarebbe sbagliato definire aristotelica, e che è (almeno per metà) alla base della filosofia analitica. Si tratta di quella «semantica veritativa» (Habermas) o «concezione referenzialistica del linguaggio» che va incontro a una critica generalizzata, almeno a partire dagli anni trenta del Novecento. […]
Però, la base del lavoro logico, in tutte le versioni, rimane proprio questa idea «descrittivista» del linguaggio. L’assunto da cui proviene ogni tipo di logica è che tutte le volte che parliamo, o pensiamo, ci riferiamo in qualche modo a entità di qualche genere, che costituiscono il contenuto dei discorsi-pensieri.

[…] basta semplicemente ammettere:

– che le realtà che rendono veri i nostri enunciati sono di diverso tipo (fatti atomici, varie collezioni di fatti atomici, fatti matematici o linguistici, fatti modali); [in nota:]Non per nulla, è tenendo ferma l’impostazione logico-metafisica basilare che sono sorte le logiche modali, condizionali, paracomplete e paraconsistenti. E anche la logica induttiva, probabilistica, stabilisce uno stesso legame fonda- mentale realtà-linguaggio, benché (come la logica fuzzy) renda sfumata, «gradualistica» l’assegnazione dei valori di verità.
– che a volte catturiamo tali realtà direttamente, per evidenza empirica, a volte per inferenza, o per ricombinazione a partire dal mondo attuale.

Basta aprire l’estensione di R, ovvero basta aprire il campo della metafisica, per ammettere che ogni asserzione coinvolge la realtà, anche se non soltanto la realtà. […] basta, almeno inizialmente, un semplice e ovvio pluralismo ontologico, se si vuole: la classica equivocità dell’essere. […]
Un antiaristotelico direbbe: ma perché incominciare dalla logica? Ho già in parte risposto a questa domanda, suggerendo che le nozioni di realtà e verità alla base dell’elenchos sono di estrema importanza nelle discussioni.

Il punto di cui spesso ho parlato, e su cui dobbiamo sempre soffermarci, è che i concetti V e R non hanno di per sé stessi nessuna rilevanza, fino a quando non entrano nelle discussioni, nei ragionamenti, nelle ricerche scientifiche, nelle riflessioni poliziesche, politiche ecc. Come ho detto ripetutamente, sono concetti inferenziali e discussivi. Ne consegue che per quanto il regno «referenzialistico» della logica non esaurisca il campo degli usi del linguaggio, certo è che tale regno è precisamente il principale da noi frequentato quando discutiamo, cerchiamo, riflettiamo ecc.

È l’apparato logico che fa capo alla verità (realistica) che ci guida nel formulare e valutare i ragionamenti, quando esistono disaccordi, dilemmi e perplessità. Si può dire dunque che la metafisica nasce dalla logica, e la logica nasce dal disaccordo, dalla perplessità e dal dubbio: proprio da quel territorio della skepsis da cui si generano le formule del to on, to alethes, to agathon.

Essere è un predicato?
[…] il nostro linguaggio segnala una differenza tra il “c’è” e l’“esiste”. Ci sono scimmie parlanti e altamente evolute, nel film Il pianeta delle scimmie, ma nel nostro mondo (a quanto so) non ci sono. In effetti tanto Aristotele quanto Kant ci danno versioni diverse della storia per cui l’esistenza non è mai predicato-proprietà. Detto semplicemente: c’è un uso predicativo e un uso esistenziale del verbo essere e quando parlo di R maiuscola uso il secondo.

In ogni caso, trattare il concetto R come un predicato (come suggerisce Tugendhat: cfr. cap. 11), è un grande vantaggio per l’analisi concettuale: ci permette di riflettere liberamente sulle condizioni di asseribilità di R. Ci possiamo chiedere allora: quando diciamo che una cosa è reale? quando abbiamo diritto di dirlo, e che cosa intendiamo nel dirlo? L’ipotesi che difendo è che R significhi: 
stare-essere presente nel mondo attuale, ossia in questo mondo in comune in cui viviamo pensiamo e di cui parliamo quando ragioniamo e discutiamo, e descritto dalla fisica come mondo spazio-temporale.

[…] tendo a prediligere l’idea che tutto c’è, ma solo qualcosa esiste – è reale: un’idea che come vedremo è tipica dei meinongiani. […]
Che cosa è reale e che cosa non lo è? Una volta assodato che i fatti sono di diversa natura e che gli esistenti che entrano in tali fatti possono essere di diverso tipo, forse basta stabilire che l’esistente in senso proprio e primario ci è dato da quel che dice la fisica: dunque esistono anzitutto i fatti fisici, e tutto il resto sopravviene sui fatti fisici. […]
La natura primariamente fisica dei fatti non nega l’esistenza di fatti spirituali sopravvenienti (o «emergenti») sui fisici. E neppure nega l’idea che i fatti fisici possano essere anche in qualche aspetto diversi dai fatti riconosciuti tali dalla scienza attuale. Come si è detto, i fisicalisti di oggi si riferiscono alla «fisica completa», dunque anche i risultati metafisici della fisica, benché categorici, risultano provvisori, se visti nella prospettiva della “scienza totale”.

 Morte e rinascita della metafisica (cap. 11)

I neokantiani ritengono che le domande metafisiche non abbiano risposte teoriche se non quelle particolari ed empiriche della scienza.
I neopositivisti ritengono che le domande metafisiche siano mal poste e fuorvianti.

il divieto neokantiano e neopositivista di occuparsi di metafisica, ossia di indagare la natura della realtà con strumenti che eccedono quelli della scienza empirica, e di chiedersi come sia fatto, realmente, ciò che chiamiamo “esistente” o “reale”, ha agito pesantemente nella tradizione filosofica. Tanto è vero che ancora oggi c’è chi associa alla parola «metafisica» l’idea di una ricerca insensata o mistica, che rincorre vanamente la trascendenza e prende sul serio i sogni dei visionari, oppure vuole sostituirsi alla scienza nell’indagare i fenomeni.

Da alcuni decenni però è in atto una controtendenza, specie nella filosofia analitica, dove la metafisica, di nome e di fatto, è decisamente rifiorita. Come si tratterà ora di vedere, la metafisica contemporanea ha trovato negli strumenti della logica moderna (proprio quelli elaborati dalla tradizione nominalmente più antimetafisica: il neopositivismo) nuove risorse di metodo; si è trattato, come si è accennato, di una vera e propria rinascita della metafisica dallo spirito della logica. […]
La metafisica analitica contemporanea conferma alla perfezione quanto si è suggerito: che la metafisica nasce dalla logica.

[…] la rinascita è avvenuta esattamente secondo le linee previste da Tugendhat (anche se Tugendhat non aveva ancora notizia di alcune teorie più recenti). […]
Le acquisizioni della logica moderna che secondo Tugendhat consentono di rilanciare e impostare in modo nuovo la metafisica sono le seguenti:

– una visione del tutto nuova dell’oggetto (inteso come termine singolare);
– una visione del tutto nuova del concetto (inteso come nome di un predicato);
– una visione del tutto nuova della nozione di universalità (o «formalizzazione», o «astrazione»: come subordinazione tipologica o concettuale, ossia predicati che parlano di predicati). […]
La tesi di Tugendhat si può confermare e anzi estendere, aggiungendo:
– una visione del tutto nuova di “mondo” come insieme di mondi possibili […]
In effetti la rinascita della metafisica nella filosofia A si deve storicamente soprattutto se non esclusivamente alla svolta determinata dalla logica moderna, e alla sua implicita concezione del mondo-mondi. Più precisamente, io sostengo, si deve allo spirito della logica: a quel che la «nuova logica» (secondo l’espressione di Russell) concettualmente e praticamente ha rappresentato per la filosofia. […]
L’intuizione di Tugendhat si è confermata, storicamente, secondo tre linee principali:
A. il Tractatus, o la metafisica dell’atomismo logico;
B. la teoria della quantificazione;
C. la teoria dei mondi possibili.
[…]
Il Tractatus si presenta come un’opera anti-metafisica ma è leggibile esattamente in modo opposto. Lì il giovane Wittgenstein spiega come è fatto il «mondo» previsto dalla logica di Frege e Russell (e dalla filosofia dell’atomismo logico di Russell). In questo modo, secondo Armstrong, spiega come è fatto il mondo in generale. Vale a dire: il mondo è fatto di fatti-stati di cose, ovvero combinazioni di oggetti (per esempio il gatto di Gilles) + proprietà-relazioni (per esempio essere sul divano). […] Questa acquisizione prevede due chiarimenti caratteristici dell’“ontologia” logica:

oggetto è qualsiasi cosa che possa avere proprietà;
proprietà sono modi d’essere (o stare in relazione, o agire) degli oggetti.

Ora vediamo bene che da qui (come per Aristotele) si apre lo spazio della metafisica. E la metafisica si presenta quando ci si chiede quali (tipi di) oggetti esistano; se le proprietà esistano come tali; se le proprietà siano universali o particolari; se esistano proprietà essenziali o intrinseche; quali tipi di proprietà esistano e quali non esistano. L’aver accettato l’evidenza logico-linguistica delle proprietà, e degli oggetti, fa (ri)nascere il problema metafisico. […]
B. […] Quine stabilisce che esserci (= esistere?) è espresso dal quantificatore esistenziale, il “c’è qualche x”. […] ne segue anche che l’ontologia di una teoria (quel che una teoria considera esistente) si stabilisce guardando “su che cosa quantifica”.

Quella di Quine però non è né metafisica (riflessione sulla realtà) né ontologia (riflessione su che cosa effettivamente c’è o esiste), ma metaontologia, come ha sostenuto ripetutamente il suo seguace Van Inwagen. Le sue tesi sono servite a fornire un metodo per esaminare gli impegni ontologici delle teorie, e a precisare la nozione di ontologia come esame di ciò che c’è (per una teoria). Ma non dicono nulla su ciò che c’è realmente, e in generale, né su come è fatto. Simili questioni (che a volte si chiamano di «ontologia materiale») per Quine sono di pertinenza della scienza. La filosofia si limita a raffrontare le ontologie, ovvero a effettuare «proiezioni» ontologiche.

Questo ci dice che Quine in metafisica è ancora neopositivista-neokantiano: per lui in fondo non c’è risposta filosofica alla domanda sulla realtà. […]
C. […] Forse il maggior contributo alla metafisica (e la sua più vistosa rinascita) si è avuto precisamente a partire dalla logica modale. Ed è anzitutto Saul Kripke a vedere nella semantica dei mondi possibili una svolta per la metafisica. […]
La semantica della logica modale, che prevede mondi in cui le cose sono diverse da come sono, non serve soltanto a valutare la validità di ragionamenti del tipo: “se avessi 20 000 euro potrei comprarmi quella macchina, ma non li ho dunque non posso comprarla”, serve anche a impostare in modo nuovo e molto più efficace le questioni metafisiche di fondo. Per esempio (cfr. § 12.4): le questioni dell’identità, del rapporto oggetti-proprietà, dell’essenzialismo. Questa tazza potrebbe avere proprietà diverse (essere più grande, rossa invece che bianca ecc.), ma se non fosse concava, cesserebbe di essere una tazza (quello che è), il che significa che concavo è essenziale all’essere tazza: in tutti i mondi possibili questa tazza è concava, se non è concava non è più quello che è.

Quali sono i vantaggi della metafisica sorta dalla logica?

La vera opportunità della metafisica sorta dalla logica è che consente di lasciare aperto lo spazio dei fatti senza vincolarlo a postulati epistemologici. Per esempio, postulati di tipo empiristico, visto che esistono – aleticamente – fatti osservabili o verificabili ma anche fatti matematici, astratti, formali, probabili, congetturali, possibili ecc. […]
Quello che si ottiene sostanzialmente è un alleggerimento della nozione di fatto. È questo, io direi, lo spirito della logica: l’apertura del mondo ai mondi possibili e pensabili.

Consideriamo la famigerata tesi di Al di là del bene e del male: «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Perché Nietzsche dice questo? […] a ben guardare dice questo anche perché con “fatto” intende qualcosa di molto pesante e irriducibile, coltiva cioè un’idea di «realtà in sé» come una specie di «roccia sotto la neve», come dice Hegel: una base durissima e inamovibile, l’evidenza «inemendabile», che non ha alcun rapporto con il fragile apparato (neve) delle conoscenze umane. Però considerare così la realtà significa, come fa lo pseudokantiano, vederla nella nostra prospettiva, nella prospettiva della conoscenza.
La realtà in sé invece, dice Hegel, “è il vivente pane della ragione” [Rapporto dello scetticismo con la filosofia, a cura di N. Merker, Laterza, Bari 1970, p. 69 (ed. or. 1802)], ciò che eminentemente è vivo e si muove, e ciò di cui la ragione sempre si nutre.
È chiaro dunque che l’errore consiste nel restringere il concetto di realtà sulla base delle cognizioni che abbiamo circa la realtà, e stabilire che i predicati “è un fatto”, “è reale” debbano assegnarsi solo a quanto ci risulta essere reale (o inemendabile che dir si voglia).

In pratica, quel che bisognerebbe suggerire, è che le condizioni dell’assegnazione di “è vero”, “esiste”, “è reale” siano mantenute, ma senza restringere il loro spazio di applicazione solo a ciò che ci risulta sul piano empirico-sensoriale, o sul piano della scienza “incompleta”. Questa apertura non coincide affatto, si noti, con l’idea che esistono gli spiriti, o qualsiasi altra sciocchezza propagata dagli architetti dei «mondi ideali campati in aria», come dice Kant. Piuttosto, consiste nell’ammettere tra i “fatti” che rendono veri i nostri enunciati tipi di fattualità anche non strettamente empirica: per esempio i fatti probabili, o possibili (stabiliti per calcolo e inferenza a partire da fatti attuali), le fattualità scientifiche non osservabili, ma che hanno effetti osservabili (attuali o possibili), le fattualità riguardanti comportamenti e credenze collettive ecc. Era questa in definitiva la procedura di Aristotele, il quale ricordava la fondazione empirica delle conoscenze e dell’esperienza, ma ammetteva anche l’equivocità dell’essere, il fatto che l’essere si dice «in molti modi». Il che non vuol dire, è ovvio, che sull’essere si possa dire qualsiasi cosa, o che esistano più descrizioni vere di uno stesso fatto, ma che attribuiamo “esiste”, “c’è”, a cose di diverso tipo.

Conclusioni
[…] il mainstream della cultura filosofica contemporanea non soffre tanto di antirealismo o nichilismo che dir si voglia, ma piuttosto di scarsa consapevolezza filosofica, ovvero ha le idee tutto sommato confuse su come funzionino i concetti di realtà, verità, bene, e i loro derivati e sinonimi, e quali siano le domande che li riguardano. Di qui è emersa anche una «questione» sotterranea, che almeno allo stato attuale costituisce e ha costituito a lungo il vero punto controverso nelle dispute riguardanti il concetto di essere (ed esserci, esistere, essere reale): la questione della metafisica, vale a dire, anzitutto, possiamo-dobbiamo davvero interrogarci sulla realtà? Ha senso farlo? Non dobbiamo piuttosto lasciare le domande di cui sopra [Come abbiamo accesso alla realtà? Come è fatta esattamente la realtà?] nelle mani particolari, serie e specialistiche, delle scienze?

[…]
Dall’inizio del Novecento a oggi (o quasi), analitici neopositivisti (e loro eredi) e continentali neokantiani (e loro eredi) unanimemente ci dicono che dobbiamo lasciare le domande sulla realtà se mai alla scienza. E poi ci dicono che comunque non possiamo porre la domanda in generale o dobbiamo al più adattarci a rispondere a domandine circoscritte, del tipo: di che cosa (di quali oggetti) esattamente parla la teoria T1? quale è la differenza tra l’«ontologia» della teoria T1 e quella della T2?

Nessun antirealismo dunque, nessun postmodernismo o antilluminismo, ma piuttosto antimetafisica, o meglio, e più o meno consapevolmente e direttamente, antifilosofia.

[…]
L’idea che la questione del realismo sia in realtà questione della metafisica, e poi in definitiva questione della filosofia (prima), del suo assetto scientifico, e del suo adattarsi o meno all’assetto scientifico delle conoscenze, è uno dei fondamentali Leitmotiv dell’heideggerismo, in tutta la sua storia. Non per nulla le questioni ontologiche si tramutano spesso per i pensatori continentali di quella tradizione in questioni meta-filosofiche, e giungono a toccare la problematica della scienza.

Nasce allora dal cuore stesso del problema del realismo (del to on) una specie di guerra culturale tra scienza e filosofia, che occupa una letteratura sterminata, e che si collega a una quantità di altre «questioni» di contorno.

[…]
si può rinunciare ai due sbocchi […]: rinvio alla pratica (in particolare neokantismo) e rinvio alla scienza (in particolare neopositivismo). La domanda sul to on può tornare alla filosofia.

[…]
L’importanza della nuova metafisica sta piuttosto nel fatto che consente quell’alleggerimento della nozione di fattualità che è la richiesta tipica della metafisica, in Aristotele come in Kant, e che nello «spirito» della logica si manifesta con una chiarezza lampante. Nella logica i fatti o stati di cose sono di svariatissimi tipi: l’unico loro requisito consiste nella capacità di rendere veri (o falsi) gli enunciati che ne parlano. E poiché i fatti che rendono vero sono fatti di oggetti e proprietà, e gli uni e le altre sono di qualsivoglia genere, si apre uno spazio vastissimo per la riflessione e la discussione metafisica: si può sostenere che tutto esiste, o che non esistono alcuni oggetti, che esistono solo oggetti fisici, che esistono solo proprietà naturali, si può sostenere che gli oggetti non esistono come tali, ma sono solo fasci o grappoli di proprietà, si può sostenere che le proprietà esistono come universali, o particolari.

[…]
forse il nesso tra logica e metafisica non ci condanna, ma ci salva.

Ci salva anzitutto, come riteneva Tugendhat, dandoci strumenti analitici nuovi per valutare la realtà del «mondo in comune», senza abbandonarci a quelle «architetture di mondi ideali campati in aria» che preoccupavano Kant. In secondo luogo ci salva dandoci una immagine minimale del mondo, composto di oggetti e proprietà, in cui possiamo ritrovarci e riconoscerci, visto che proprio di questo ci parla il linguaggio che condividiamo. In terzo luogo, e soprattutto se si tiene conto delle “scoperte” delle logiche non classiche in metafisica (e della teoria del ragionamento probabile e decisionale in epistemologia), ci dà anche una serie di strumenti scettici per riconoscere le falsificazioni gli errori e gli inganni che un realismo furbo e limitativo potrebbe produrre, e la varietà dei casi su cui ragioniamo e discutiamo.

Infine, ci aiuta ad aprire la considerazione del mondo attuale, implicata nella scienza, e nella nostra stessa vita privata e pubblica, alla vastità dei mondi possibili che di fatto costituiscono il mondo, e che possiamo “ricombinare” immaginativamente, a partire dal nostro mondo in comune.

[…]
I saggi neopositivisti e neokantiani ci vietavano di interrogarci sulla realtà perché loro stessi erano prigionieri di una concezione della realtà data per presupposta, e dogmaticamente asserita come indiscutibile.


Cap. 6 – Una questione non controversa

Che cosa è “la questione del realismo”? che cosa ci chiediamo quando ci
interroghiamo sulla realtà?
I problemi filosofici relativi alla realtà non riguardano l’esistenza della realtà (e
neppure a ben guardare la sua “indipendenza”), ma piuttosto 1. come è fatta, 2.
come vi abbiamo accesso, 3. che cosa intendiamo dicendo “questo è reale”, “questo
esiste”. Vengono brevemente affrontate le questioni 2 e 3 (epistemologiche e di
analisi concettuale), mentre la questione 1 (metafisica) sarà oggetto dei capitoli
successivi. Si chiarisce anche la distinzione tra realismo metodologico e realismo
metafisico, e si dissolve la falsa controversia tra realisti e antirealisti metodologici.


Cap. 7 – Strani realismi

Prende in esame i dibattiti analitici contemporanei relativi alla “dipendenza”
della realtà dalla mente o dagli schemi concettuali, mostrando che la tesi della
dipendenza nelle diverse versioni ricade sotto gli argomenti confutatori, fissati da
Aristotele nel IV libro della Metafisica. Si chiarisce anche che secondo chi scrive
non esistono propriamente realismi “modesti” o “moderati”. Il realismo non è una
posizione da “sì, però”, ma piuttosto da “tutto o niente”; e il niente cade fuori dalla
filosofia: è gioco culturale, oppure critica della metafisica, oppure anti-filosofia.


Cap. 8 – Realismo scientifico

Esplora i principali dibattiti sul realismo scientifico. Il primo: la scienza è
garante di verità realistica? Il secondo: la realtà di cui ci parla la fisica è la vera
realtà, o è realtà piuttosto quella del senso comune? Mostra che esiste
effettivamente un certo primato della scienza in metafisica, ma la scienza di cui si
tratta è la «scienza totale» (concetto essenziale per i realisti contemporanei,
variamente teorizzato, in particolare da Armstrong e Lewis).


Cap. 9 – Verità e realismo

Esamina la discussione su verità e realismo: anzitutto Dummett, e il confronto
tra epistemicisti (‘vero’ equivale a dimostrato, verificato, giustificato) e realisti
(‘vero’ è come stanno le cose). La discussione contrappone l’antirealismo
verificazionista al realismo semantico, ma non ha alcun rapporto con l’antirealismo
metafisico. Si specifica che il realismo semantico ha ad avviso di chi scrive un
primato oggettivo. Si esplora quindi il «realismo aletico», di W. Alston e altri,
secondo cui la tesi “esistono fatti che rendono veri enunciati” è una tesi minimale
inaggirabile. Si nota che il realismo aletico contiene già una forma preliminare di
realismo metafisico: quella forma che è la base metodologica del realismo
semantico (criticato da Dummett).


Cap. 10 – L’unico realismo possibile

Presenta le linee preliminari del realismo di chi scrive. Incomincia con la
fissazione delle tre tesi: 1. esiste una realtà, 2. esiste una sola descrizione vera della
realtà, 3. a volte possiamo formulare descrizioni vere, e riconoscere come vera una
descrizione. Dimostra che sono an-elenctiche, cioè non confutabili, stando ai
significati di “verità” (V) e “realtà” (R) che comunemente usiamo. Questi
significati di V e R sono alla base della logica (come teoria formale o informale
del ragionamento valido), e pertanto sono alla base di tutte le nostre interazioni
discussive. Esiste dunque un obbligo cognitivo e discussivo che ci vincola a tenere
conto della verità realistica. Questo obbligo non è in sé una metafisica, ma
costituisce la premessa per la riflessione metafisica.
Si presentano allora una serie di posizioni di dettaglio relative a: - che cosa è
reale-esistente, e come funziona la proprietà-predicato “x è reale”; - che cosa è un
“fatto”, e come sia fatto; - quali tipi di fatti esistano.


Cap. 11 – La rinascita della metafisica dallo spirito della logica

Si offre un quadro della rinascita attuale della metafisica nella filosofia
analitica, distinguendo le tre linee, basate: sull’ontologia del Tractatus; sulla teoria
della quantificazione di Quine; sulla semantica dei mondi possibili. Si mostra che
tutte convergono nel confermare lo «spirito» della logica come spirito di
alleggerimento della metafisica.


Cap. 12 – Realismi realmente nuovi

Esamina tre teorie contemporanee che dimostrano le opportunità della nuova
metafisica in relazione alla problematica del realismo: il noneismo di Graham
Priest (la teoria secondo cui ci sono oggetti che non esistono); il realismo degli
universali di David M. Armstrong (secondo cui esistono proprietà universali in
rem); il realismo modale di David K. Lewis (secondo cui i mondi possibili
esistono, esattamente come esiste il mondo attuale). Si fanno vedere anche le
opportunità di una forma (non necessariamente metafisica) di realismo modale per
la filosofia politica.

5 gennaio 2015

Alla radice della divaricazione fra Analitici e Continentali: Kant incompreso




Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 5 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini, con ampie citazioni (a margini rientrati) dal testo originale.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post ho aggiunto, in grassetto, il sommario del capitolo 5 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dall'impostazione del testo originale.
G.N.


Il campo della filosofia si è diviso, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, in due “tronconi”: la tradizione analitica e la tradizione continentale. Entrambe le tradizioni sono state per lungo tempo anti-metafisiche, ma per motivi diversi:

i neokantiani diventano antimetafisici per salvare la filosofia dall’assorbimento nelle scienze specializzate. Mentre i neopositivisti diventano antimetafisici per aggiornare la filosofia, mettendola al passo con lo statuto moderno delle scienze. [cit. dal Cap. 6]

Questa divisione è stata deleteria per lo sviluppo della filosofia: ha impedito che si potesse lavorare in modo sinergico per costruire una metafisica che rispondesse ai requisiti kantiani e ha anche prodotto la confusione secondo la quale se la filosofia persegue l’utilità pubblica perde in scientificità o viceversa.
Ma perché si è prodotta la divaricazione fra tradizione analitica e tradizione continentale?
Alla radice di questa divaricazione tanto profonda, e ancora oggi in sostanza non risolta, sta un grande fraintendimento, una fondamentale incomprensione.

È il grande fraintendimento riguardante il kantismo (e l’idealismo tedesco, e tutto quel che ne consegue), interpretato come antirealismo metafisico, ovvero scomparsa dei fatti, annientati dai concetti o dalle interpretazioni

La tradizione analitica, contrariamente a quella continentale, pur non ignorando completamente Kant e Hegel,

li esclude di principio dal canone. E in tal modo per così dire salta l’Ottocento (almeno la prima metà) e collega senz’altro Hume al primo Novecento, alla logica di Frege e Russell e al pragmatismo (o se mai alle filosofie centroeuropee del secondo Ottocento).

Questo salto è dovuto al fraintendimento della svolta trascendentale che Kant ha impresso alla filosofia: asserzioni trascendentali vengono scambiate per asserzioni metafisiche, di conseguenza l’antirealismo metodologico kantiano viene interpretato come antirealismo metafisico. Questo errore viene compiuto non solo in ambiente anglosassone, ma anche in ambiente “continentale”, in primo luogo da Nietzsche.
In realtà la filosofia trascendentale kantiana

non esplora la realtà, ma esplora le strutture concettuali che ci servono per dare conto della realtà, e dire “questo è reale”, “questo è vero”, “questo è un fatto”, e ci dice a quali condizioni possiamo usarle sensatamente e giustificatamente.

La svolta trascendentale

aveva la funzione di chiarire che in metafisica, come nella scienza, come in qualsiasi attività intellettuale umana, noi lavoriamo su ciò che ci risulta, di conseguenza occorre una prima e banale cautela scettica, perché quel che ci risulta può essere diverso da ciò che è. Questo non significa che ciò che è non ci sia, né che sia sempre diverso da ciò che ci risulta. Significa invece che dobbiamo, come filosofi, dare conto delle ragioni per cui abbiamo diritto di dire “questo è vero”, “questo non è vero”. In altri termini, se volete, come mette le cose David Lewis: il mondo è il risultato di una combinatoria estremamente complessa e multiforme di particelle, e il fatto davvero sorprendente è che nonostante ciò lo conosciamo, e riusciamo a dire su di esso cose vere o false: come si spiega questo fatto? L’analisi filosofica, dice Lewis, deve dare conto della semplicità del mondo. Allo stesso modo, la filosofia trascendentale per Kant dà conto della nostra capacità di avere esperienza e conoscenza, nonostante tutte le difficoltà individuate da Hume.
Ora la risposta di Kant è: riusciamo a conoscere la realtà perché abbiamo strutture mentali e concettuali, gli a priori, che ci servono per dare ordine alla ricettività empirica. Dunque l’analitica trascendentale, che non è metafisica ma è preparatoria alla metafisica, deve esaminare queste strutture, e spiegare come sono e come funzionano. […] Ecco dunque la radice del problema: l’analisi trascendentale non è metodologicamente metafisica nel senso di descrittivo-realistica; ma non è neppure tematicamente metafisica (errore di Strawson) perché non riguarda la realtà, i fatti, ma il modo in cui li conosciamo. Di qui la conseguenza che ne traggono i neokantiani: in filosofia – ma evidentemente non nella scienza, nella vita, nella politica – non si tratta della realtà, delle cose come stanno, perché questo è oggetto piuttosto della scienza. Ma Kant non traeva questa conclusione: si limitava a dire che l’analisi critica della ragione era la condizione perché una buona metafisica potesse svilupparsi, senza rischio di diventare una di quelle «architetture di mondi ideali campati in aria» che lui stesso aveva messo in ridicolo nei Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica.
Questa rinuncia a esaminare l’essere è il grande motivo di discussione sul neokantismo che pervade tutta la filosofia continentale contemporanea. E in particolare è Heidegger che esamina i rischi e i problemi connessi a ciò che chiama l’“oblio dell’essere”.
Ma allora, se teniamo conto di tutto ciò, si conferma che la “questione del realismo”, tanto per la filosofia A quanto per la C, è o dovrebbe essere “questione della metafisica”: di come è fatta la realtà, e di se e quanto possiamo/dobbiamo darne conto anche con la filosofia, e non solo con la scienza. [corsivo mio]

Cap. 5 – Analitici e continentali?
La soluzione al problema rappresentato dal metodo PM, specie per quel che
riguarda il realismo, era forse a portata di mano. Come suggeriva Tugendhat nel
1976, la filosofia analitica, sorta dalla semantica di Frege, poteva rinnovare e
rilanciare il linguaggio della metafisica tradizionale, dando nuova solidità alle
metafisiche critiche di Kant e di Husserl. È quel che di fatto è successo: la
metafisica analitica è “rinata” dalla logica (cap. 11). Però purtroppo la progettata
convergenza di ontologia analitica (A) e continentale (C) per quel che riguarda il
realismo è stata praticata (ed è tuttora praticata) per lo più secondo parametri e
metodi PPM, in base a un paradigma rortyano-sokaliano a cui si sono
disciplinatamente uniformati alcuni filosofi analitici contemporanei (es.
Boghossian). Al centro del paradigma sono i due problemi suggeriti nei capp. 1 e 2:
confusione circa il carattere trascendentale (metateorico, riflessivo) e non
metafisico delle tesi derivanti dal kantismo; scarsa consapevolezza filosofica (di
filosofia prima). La cura di simili malanni è difficile: di fatto quel che era una
soluzione, ossia la convergenza tra A e C , è diventato ora un problema, almeno per
quel che riguarda il realismo (in altri campi le cose vanno molto meglio). 


4 gennaio 2015

Breve storia della ragione nell'Ottocento e nel Novecento: democratizzazione, nichilismo, totalitarismi, "crisi della ragione", postmodernismo, trivialismo, ritorno alla filosofia





Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 4 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini, con ampie citazioni (a margini rientrati) dal testo originale.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post ho aggiunto, in grassetto, il sommario del capitolo 4 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dall'impostazione del testo originale.
G.N.



La filosofia «guida – ha guidato – la specie umana cercando di promuoverne (con incerto successo) il lungo e tortuoso percorso verso la democratizzazione».
    Dopo «le lunghe pause della teocrazia medievale e dell’oligarchia moderna», l’Ottocento è il secolo nel quale si riprende il processo di democratizzazione. 
L’Ottocento è il primo secolo in cui il demos (non più i condottieri, i principi, i papi, i re, gli stessi philosophes), diventa (o inizia a diventare) ufficialmente il protagonista della storia. (Circostanza non da poco per la filosofia; specie se si riconosce il profondo e inestricabile legame che lega la filosofia alla democrazia.)
Ma l’Ottocento è anche il secolo nel quale (nella seconda metà) la cultura europea conosce il fenomeno del nichilismo: un generale essere contro (ogni autorità, ogni principio) e decretare la fine della verità e di ogni valore. Nietzsche registra questo fenomeno e teorizza il cosiddetto “nichilismo affermativo”: il nichilismo non doveva essere vissuto negativamente,
bensì come l’inizio di qualcosa di totalmente nuovo, o anzi come “mezzogiorno dell’umanità”; perché avrebbe comportato il definitivo “tramonto degli idoli”, e pertanto la definitiva liberazione dalle logiche teocratiche perverse (Religione, Scienza) che avevano dominato il pensiero “moral-metafisico” dell’Occidente.
Ma perché questa coincidenza di grande democratizzazione e nichilismo? Perché il nichilismo? 
La risposta dei critici del nichilismo dal punto di vista della religione è che la democratizzazione comporta l’immanentismo o anche la cosiddetta secolarizzazione, e con l’immanenza e il “disincanto”, l’umanità perde la fiducia nella realtà e nella verità (e nei relativi concetti, che la tarda modernità interpreta come voci della trascendenza; mentre è ovvio che sono invece le voci proprie dell’immanenza, del qui e ora).
    Mi sembra più utile però adottare un’altra spiegazione, meno grandiosa forse, ma che ai miei occhi ha il merito di essere più concreta, e legata alle condizioni empiriche ed effettive di esercizio e propagazione delle conoscenze.
    L’Ottocento non è soltanto l’epoca della vera e ufficiale «uscita di minorità» degli individui della specie umana, è anche l’epoca della specializzazione scientifica, e l’epoca in cui inizia una “crisi” non dei grands récits, ma piuttosto della filosofia, ovvero il meta-grand récit che accompagna la cultura occidentale. A mano a mano, le diverse scienze (la logica, la psicologia, l’antropologia ecc.) si emancipano dal corpus centrale dell’enciclopedia filosofica, e diventano saperi settoriali, sempre più raffinati e specializzati. […] Quale era il problema dunque? Semplice: proprio nell’epoca in cui la coscienza individuale veniva investita per la prima volta di grandi diritti e grandi libertà sociali e politiche, ecco che gli individui venivano privati della capacità e del diritto di usare i concetti di realtà, verità, bene. La complessità dei saperi metteva l’uso di tali concetti nelle mani degli esperti settoriali, e dei tecnici. Le sintesi orientative (grandi narrazioni?) che avevano guidato i saperi nell’epoca precedente risultavano sempre meno praticabili.
    Nel corso del Novecento, lo sviluppo dei media generava una crescita oggettiva delle possibilità di falsificazione e inganno. Se dispongo dei mezzi di comunicazione (radio-televisione) posso in breve tempo ingannare una quantità incredibile di persone, facendo loro credere vero ciò che è falso, reale ciò che non esiste, giusto ciò che è ingiusto. Di qui i totalitarismi novecenteschi, resi possibili e garantiti dal controllo dei media.
I totalitarismi riescono a rilanciare le “grandi narrazioni”, che indirizzano le masse ma attraverso strumenti di manipolazione e diffusione del falso.
A partire dal secondo dopoguerra, quando le grandi manipolazioni totalitarie si rivelano come tali, tutto ciò diventa ampiamente noto. La quantità di letteratura, filosofica e non, sui rischi della specializzazione e il perverso progredire della civiltà mediatica, cresce in modo esponenziale. Si diffondono allora le teorie della “crisi della ragione”.
Lyotard definisce nel 1979 “postmoderno” l’epoca della crisi delle grandi narrazioni. Per definire un po’ meglio la tesi di Lyotard utilizzo in questo paragrafo stralci da un altro testo di Franca D’Agostini: Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea (Carocci, Roma 2005). «Il postmodernismo è stato (è tuttora?) una teoria descrittiva dello stato della teoria in generale. Tale descrizione […] stabiliva il seguente assunto: “Non è (più) possibile formulare teorie né metateorie globali, siano esse concepite con funzioni di legittimazione o di descrizione, come supporti mitici o come fondamenti teoretici”. Si presentava dunque una metateoria o descrizione globale che dichiarava l’impossibilità delle metateorie o descrizioni (o narrazioni) globali.». Al di là del fatto che apparentemente si tratta di una contraddizione, «quali erano le ragioni effettive e i dati di fatto su cui poggiava la metateoria postmodernista? […] Non è possibile qui esaminare in dettaglio tutte le ragioni del declino della teoremi nelle filosofie europee del Novecento: sicuramente alla base di tutto esistevano ragioni pratiche ed etico-morali (per esempio la “trionfale sventura” che dall’Illuminismo aveva portato ai campi di sterminio, secondo Adorno e Horkheimer), e ragioni metafisiche (l’idea dell’incompletezza della ragion teoretica, derivata da Kant). Ma sinteticamente, e per mantenersi a un piano esclusivamente teoretico, le ragioni di fondo del postmodernismo erano precisamente quelle stesse ragioni che la sintesi del pensiero debole traeva dalla tradizione fenomenologia ed esistenzial-ermeneutica, e da Nietzsche, ossia i due assunti [A: Diverse tesi su un medesimo oggetto possono essere simultaneamente vere; B: Una tesi non esaurisce mai tutta la verità del suo oggetto.]» (p. 199-201)
    Negli anni Ottanta si diffonde una pratica culturale, che si può definire “postmodernismo”, la quale intende la “fine delle grandi narrazioni” come fine dei “discorsi legittimanti” (le giustificazioni collettivamente valide), si caratterizza come critica dell’immagine della scienza e del sapere trasmessa dalla modernità illuministica e si manifesta in forme di relativismo e antirazionalismo espresse con uno stile confuso e deteriore («confusione di teoria e metateoria, di questioni metafisiche e metodologiche; uso impazzito di strawmen, letture chiuse ed estrapolazioni, semplificazioni e altre fallacie.»). Si crea, in pratica, una nuova «grande narrazione legittimante qualunque insensatezza»: è il “grande massacro” postmodernista, “un relativismo cognitivo e culturale che considera la scienza alla stregua di una narrazione, di un mito, o di una costruzione sociale tra le altre” [A. D. Sokal e J. Bricmont, Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza? Garzanti, Milano 1999 (ed. or. 1997), p. 15.]
     Ma il dato veramente devastante del postmodernismo non è l’antirealismo (una conseguenza trascurabile, ammesso che qualcuno l’abbia mai veramente sostenuto), bensì il trivialismo,
ossia il tutto è vero, tutto va bene, legittimato dalla fine dei discorsi legittimanti. […] Di qui la “bancarotta intellettuale ed etica della laissez faire postmoderno”, come scriveva Christopher Norris in Against Relativism» (Blackwell, Malden 1997).

Che fosse in atto una “crisi della ragione” era già stato segnalato come problema verso la metà del Novecento, già ben prima di Lyotard, sia da filosofi antilluministi sia da neoilluministi:
i primi assegnandone la colpa alla ragione stessa, i secondi riconoscendo come responsabile la cultura di massa e la conseguente volgarizzazione delle idee prodotte dai media. Il Postmodernismo fu, in breve, la versione “affermativa” di queste teorie della crisi, e cioè l’idea che la crisi in questione costituisse in realtà un bene, perché liberava il linguaggio e il pensiero dai vincoli della Storia, della Scienza, della Religione, ed eventualmente liberava l’arte l’architettura la letteratura da quella serie di vie obbligate che avevano costituito lo stanco canone occidentale.
Nietzsche, con la sua teoria del “nichilismo affermativo”, sembrava aver detto qualcosa di molto simile.
Ricordiamo però che in Nietzsche (e in Bazarov, e nei giovani decadenti e/o rivoluzionari dell’Ottocento) il nichilismo non era antirealismo, ma piuttosto un anti generalizzato: fine della verità, fine dei valori, fine del platonismo, della logica, della grammatica, della filosofia… […] Non era sbagliato, credo, collegare il nichilismo «affermativo» di Nietzsche, e la sua diagnosi circa la “mutazione antropologica”, al postmodernismo. Specialmente perché nella versione affermativo-energetica il nichilista che piaceva a Nietzsche non era il rivoluzionario distruttore di tutti i valori – figura tipicamente ottocentesca – ma piuttosto il personaggio successivo, lo spirito libero, emancipato dalla “tirannia dei valori”, e perciò profeta della “scienza che danza con piedi leggeri” (una formula nietzscheana che sarebbe piaciuta molto a Paul Feyerabend, maestro dell’antimetodologismo postmoderno). Ed era questa una figura che si adattava piuttosto bene a ritrarre l’umanità nelle democrazie occidentali, viziata dalla società del benessere e del boom economico. Se l’Ottocento pensa effettivamente ancora in termini di antirealismo (o anti in generale), il Novecento (specie quello del secondo dopoguerra) pensa in termini di iperrealismo; le formule “tutto vero”, “tutto reale”, “tutto presente” si sostituiscono lentamente a “niente verità”, “niente realtà”, “tutto assente”. Una specie di Protagora iperrelativista prendeva il posto del Gorgia annientatore dell’essere, del vero, del conoscibile. […] In parte, ci troviamo ancora in questa situazione. I nuovi mezzi tecnici di circolazione della conoscenza danno certo nuova fiducia alla coscienza individuale, circa la propria capacità di determinare ciò che è vero, reale, giusto; ma creano anche grande rumore, e confusione, e conflitti di affidabilità. Se il trivialismo postmodernista era un fatto, o uno “stato dei saperi”, come diceva Lyotard, nel 1979, in buona parte lo è ancora. D’altra parte, la risposta al neotrivialismo postpostmoderno si esprime ancora esattamente nei modi tardomoderni. Il caos democratico ancora oggi si corregge con i tecnici, gli specialisti di economia, di scienze sociali, anche eventualmente con i tecnici-filosofi (in definitiva è quel che cerco di fare io stessa)
e qui Franca D’Agostini rimanda al suo discorso sulla normalizzazione della filosofia.
    Oggi c’è all’orizzonte qualcosa di nuovo? Nell’ultima sezione del Capitolo 4, dal titolo Dal trivialismo postmoderno alla “riellenizzazione della ragione” Franca D’Agostini spiega in che senso secondo lei vi è oggi la possibilità di un ritorno alla filosofia, alla “buona filosofia” nel suo originario spirito socratico. Nel secondo Novecento, in particolare verso la metà degli anni Settanta, inizia il processo
che porta al lento affermarsi del nuovo universalismo che caratterizza la globalizzazione, e dunque al venir meno del potere oligarchico delle ideologie, delle menzogne organizzate e delle simulazioni dottrinali. Con la crescita dell’informazione, cresce il rumore, ma cresce anche la possibilità di critica e smascheramento del falso.
Qui si può inserire il riaffiorare della filosofia. Rileggendo la lyotardiana “fine delle grandi narrazioni” non come trivialismo ma come
fine (o lento sfiorire) delle Weltanschauungen, come direbbero i neokantiani. Di fronte all’emergere effettivo del mondo globalizzato, le visioni del mondo impallidiscono e rivelano la loro rigida e falsificante astrattezza. È a questo punto che dovrebbe affiorare la filosofia. Non la filosofia come scienza o disciplina accademica; piuttosto, quel modello di razionalità non religioso né scientifico (nel significato “moderno” del termine) che da Aristotele a Hegel ha descritto se stesso come filosofia. E si tratta, in pratica, del pensiero critico, discussivo, attento alle funzioni del vero-reale-giusto, che Socrate opponeva al narcisismo e al formalismo dei sofisti (e che i filosofi dovrebbero contribuire a rinnovare e a mettere a punto, se fossero disposti ad accantonare il proprio narcisismo e/o formalismo di oligarchi del pensiero).
(Al termine di questo passaggio stava una importante nota, espunta dall’edizione a stampa, che ho potuto leggere per gentile concessione dell’autrice (corsivo mio): «Secondo me la filosofia come scienza o disciplina accademica dovrebbe essere ridotta e «normalizzata», mentre la filosofia come ipotesi antropologica, ossia il modo in cui gli esseri umani potrebbero-dovrebbero essere, dovrebbe essere difesa e diffusa.»)
    Si tratterebbe insomma di un più autentico postpostmodernismo non accecato dalla diffidenza (di origine nietzscheana) verso la parola “filosofia”.


Cap. 4 – Staccate la spina del postmodernismo!
Il fatto più sorprendente del “nuovo realismo” (specie nella versione italiana) è
che il bersaglio polemico principale resta il postmodernismo (PM): una creatura
che sembrava già agonizzante negli anni Novanta dello scorso secolo. Non si vede
bene a quale scopo accanirsi contro i morenti; ma soprattutto ci chiediamo: perché
l’agonia del PM dura così a lungo?
La risposta è piuttosto semplice. Il problema rappresentato dal postmodernismo
(PM) non è stato l’eventuale antirealismo e relativismo dei suoi sostenitori, ma –
come sostenevano Sokal e Bricmont in Imposture intellettuali – un metodo di
argomentazione e uno stile di lavoro che ha come sbocco l’impostura intellettuale,
vale a dire il ragionare e argomentare senza interesse per la verità, i fatti, la
razionalità. Chiamo questo stile argomentativo trivialismo metodologico (anything
goes), che equivale in ultimo a credere che tutto sia ‘vero’, e comportarsi di
conseguenza. Naturalmente, se tutto è vero è vero anche che niente è vero e che
qualcosa non è vero. Ne segue che l’impostura si può applicare a qualsiasi
contenuto, anche eventualmente all’anti-impostura. Abbiamo dunque il post-PM,
che procede con metodi PM alla critica del PM. E naturalmente avremo il PPPM,
che affronterà con metodi PM la critica del PPM… Ecco spiegata la lunga agonia
del PM.

3 gennaio 2015

Il "Nuovo Realismo" e l'antidoto: normalizzare la filosofia




Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 3 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini, con ampie citazioni dal testo originale.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post aggiungo, in grassetto, il sommario del capitolo 3 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dal testo originale.
G.N.



Il “nuovo realismo” lanciato da Ferraris si contrappone a un fantomatico nemico: un filosofo (o addirittura un’intera massa di filosofi) che affermerebbe che la realtà è modificabile a piacimento, dato che è costruita da noi stessi. Chi ha mai sostenuto questo? Secondo Ferraris si tratta di una posizione ascrivibile ai sostenitori del “pensiero debole”, all’ermeneutica, e se ne può rintracciare l’origine in Kant. Vattimo e Rovatti, che si sono sentiti chiamati in causa, hanno replicato a Ferraris negando questa immagine di Antirealista Confuso che si sono visti appiccicare addosso, ma ciò non è bastato a convincere Ferraris di avere sbagliato obiettivo.
     Se qualcuno sostiene che i fatti sono modificabili o “emendabili” sicuramente non si riferisce a fatti passati (sarebbe assurdo): probabilmente sta parlando del fatto che attraverso le nostre azioni noi, anche se in misura minima o marginale, produciamo un cambiamento nel mondo. Noi tutti agiamo perché la realtà è, almeno in parte e per certi aspetti, modificabile seguendo adeguate procedure basate su adeguate conoscenze su come la realtà stessa è strutturata.
Ma Ferraris, che risponde al fantomatico nemico sostenendo che la caratteristica principale dei fatti è quella di essere “inemendabili”, si è proprio inventato tutto? Non c’era nessun problema da risolvere? Abbiamo già visto che ci sono state importanti domande riguardo alla realtà e al nostro rapporto con essa (che però non riguardano la presunta esistenza di sole interpretazioni…). Ed è vero che si è creata una specie di ostilità, fra tardo Ottocento e Novecento, nei confronti dei concetti di realtà e di verità. Abbiamo visto nel capitolo precedente che c’è stata una specie di confluenza di entrambe le tradizioni – analitica e continentale – verso un atteggiamento anti-metafisico.
Secondo Franca D’Agostini questo è stato un serio problema per la filosofia, perché l’ha portata lontano dal suo compito originario e fondamentale. Inoltre è convinta «che una riconsiderazione dei problemi metafisici sia importante per la vita pubblica». D’Agostini avrebbe quindi auspicato una riaffermazione del realismo, inteso come riaffermazione dell’interesse metafisico verso la realtà, ma si è trovata in grave imbarazzo di fronte al “nuovo realismo” targato Ferraris, che le impediva (di fatto) di comunicare le sue posizioni riempiendo la scena filosofica con un “realismo” confuso e confondente, che aveva ben poco di metafisico: «perché mai sarebbe “realismo” il semicostruzionismo difeso da Ferraris (non tutto è costruzione, non tutto è interpretazione): una ragionevolissima posizione, ma epistemologica e non metafisica, e tutto sommato già nota a chiunque?». Da qui la necessità di intervenire nella scena dominata dal “nuovo realismo”, mostrando i fraintendimenti, i falsi nemici, i veri problemi lasciati senza risposta e le risposte a domande che nessuno ha mai posto.
I problemi reali della filosofia contemporanea, a cui il “nuovo realismo” di Ferraris non risponde, risalgono al tardo Ottocento, al nichilismo come «crisi di crescita della democrazia», a cui abbiamo già accennato. La filosofia ha reagito alla propria crisi, dovuta alla specializzazione scientifica, specializzandosi essa stessa (processo avviato dalla tradizione analitica), ma questa strada non è stata percorsa in modo unitario né con consapevolezza, e sono rimasti molti dubbi e perplessità sul suo compito e sul suo ruolo nel rapporto con la vita pubblica. 
Un modo per uscire da questi dubbi sarebbe quello di normalizzare la filosofia, cioè

incominciare a considerarla come una scienza come qualsiasi altra, benché dotata di sue caratteristiche specifiche. In effetti io penso che il primo problema stia qui. Più propriamente: nel fatto che la filosofia non è concepita come una scienza normale, e la “scienza normale” si è descritta a lungo come antifilosofica. Di qui quella visione enfatica della filosofia (un misto di avversione e ammirazione esagerata) che è alla base del lavoro di Nietzsche, e di molti suoi lettori se non seguaci. In Nietzsche c’era una strana e nevrotica antipatia nei confronti dei filosofi, unita alla sua pretesa di essere un grande filosofo. Entrambe (antipatia e pretesa) sono entrate nei cervelli di chi l’ha preso sul serio, senza ricordare che Nietzsche era un affascinante scrittore, ma forse di filosofia non ne sapeva granché. [È questo forse il passaggio dove F. D’A. è più esplicita nella sua stroncatura della figura di Nietzsche; nello stesso capitolo, parlando di fraintendimenti, scrive che «Nietzsche […], leggendo affrettatamente Schopenhauer, interpreta il kantismo come antirealismo metafisico (una versione che Ferraris si ostina a considerare canonica)».]

Occorre quindi pensare alla filosofia come a una scienza qualsiasi, e alla scienza come «la ricerca umana di oggettività», esposta alla possibilità di errori.
                    [Riporto qui un passo di questo capitolo che è stato tagliato nella versione pubblicata (D’Agostini ha messo a disposizione nel blog “Filosofia pubblica” l’intero capitolo 3 nella sua versione originaria), perché mi sembrano particolarmente interessanti le osservazioni sulla responsabilità di Hegel nella mancata normalizzazione della filosofia:«Non voglio qui entrare in dettaglio su come ciò avvenga (ne ho parlato fin troppo, in altre sedi), mi limito solo a fissare alcune idee.Come qualsiasi scienza la filosofia ha una sua specificità, che va precisata. Naturalmente, se finite con il dire che le caratteristiche della filosofia consistono: 1. nell’essere un’impresa eroica e sensazionale, oppure 2. nel non essere una scienza, oppure 3. nell’essere una pseudo-scienza, oppure 4. nell’essere la regina delle scienze, allora siamo daccapo. Nei casi 1 e 2 non c’è più alcun controllo sulle tesi filosofiche, e qualsiasi enfatico guastatore dei giochi e manipolatore sofista può passare per formidabile pensatore (ed è facile che lo diventi, nella confusione comunicativa a cui provvedono i vecchi e nuovi media). Nel caso 3, siamo di fronte all’antifilosofo a priori, l’ignorante di filosofia che prova fastidio o invidia del prestigio a volte goduto dalla disciplina (per via del diffondersi delle teorie di tipo 1), oppure al mezzo-filosofo (di solito cultore di altre discipline) che ha un’idea vaga della filosofia, e si stanca subito di studiarla. Nel caso 4, siamo di fronte notoriamente all’errore dell’hegelismo, su cui c’è molto da dire, qui mi limito a osservare che il danno fu grandissimo, perché Hegel fu un raffinato metafilosofo, e se c’era una speranza di normalizzare la filosofia, era proprio a partire da lui.»]

Riconosciuta l’esigenza urgente di normalizzazione della filosofia, resta ancora, oltre al problema di riconoscere la radice umana e filosofica dell’impresa scientifica, il problema dell’attuale inesistenza della “filosofia prima”, cioè quella parte preliminare della filosofia che si occupa di verità e di essere o realtà (si veda la Metafisica di Aristotele). Questa parte della filosofia è oggi sviluppata in modo frammentario: un pezzo nell’epistemologia, un pezzo nella logica filosofica, un pezzo nell’ontologia. I problemi urgenti che la filosofia deve affrontare sono

questioni minimali, elementari, che riguardano l’alfabeto del lavoro filosofico, e che non abbiamo ancora chiarito a noi stessi. Il fatto è che una serie di chiarimenti metodologici sono mancati, nella filosofia degli anni centrali del Novecento, proprio nell’epoca in cui il vasto territorio delle ricerche filosofiche stava dando a se stesso un assetto scientifico, e le competenze filosofiche stavano democraticamente diffondendosi, grazie ai media e più tardi alla “digitalizzazione”, diventando patrimonio comune e condiviso. Oggi forse le cose potrebbero migliorare. Ma la questione è ancora incerta e in sospeso. Di qui l’ipotesi che a mancarci sia proprio la filosofia prima, vale a dire gli elementi preliminari che ci servono per fare filosofia, e per sapere che cosa stiamo facendo, nel farla.

Per esempio occorre chiarirci bene le idee sul fatto che la ricerca filosofica ha sempre di mira la verità e quindi le argomentazioni filosofiche hanno obblighi veritativi come in tutte le (altre) scienze. Verità non significa che tutte le proposizioni filosofiche devono essere indiscutibili, certissime. Esistono credenze filosofiche solo probabili, o anche solo più probabili della loro negazione, come del resto esistono credenze di questo tipo anche nelle scienze naturali (accanto invece a credenze solidissime). Le procedure di fondazione di una asserto o di una teoria, sia in ambito scientifico sia in ambito filosofico, riguardano il riuscire a mostrare se e come

le tesi discusse siano allacciate sensatamente alle tesi indiscusse. […] semplicemente: proposizioni che esprimono credenze relative a stati di cose (attuali o possibili), e che danno supporto l’una all’altra. È questa la “normalizzazione” proposta dal realista Russell. E non mi sembra affatto disprezzabile. Non per nulla proprio di qui viene quello che io credo sia il vero “nuovo realismo” della filosofia contemporanea.

È questo lo “spirito della logica” da cui è rinata la metafisica; è questo il “nuovo paradigma” che si sta affermando.



Cap. 3 – Nuovo realismo e postmodernismo metodologico
La teoria italiana del «nuovo realismo» nella versione di Maurizio Ferraris è
una combinazione particolarmente ben riuscita delle manipolazioni e dei
fraintendimenti presentati nei due capitoli precedenti. Ferraris secondo Salvatore
Veca difende una forma di post-postmodernismo, con metodi e procedure
tipicamente postmoderne. Nel caso di Ferraris però occorre aggiungere qualcosa in
più. E anzitutto l’ostinazione di Ferraris nel contrapporsi a tesi e teorie che nessuno
sostiene. Per esempio la teoria secondo cui davvero non esistono fatti, o non esiste
realtà; oppure l’idea che i fatti accaduti sono “emendabili”, o che la realtà è
costruita (dunque posso buttarmi spensieratamente da un grattacielo). Chi ha
sostenuto simili teorie? Non è chiaro. Per lo più il colpevole per Ferraris è Kant,
ma esistono fondati dubbi circa il fatto che Kant abbia sostenuto qualcosa del
genere.
Nonostante ciò il “nuovo realismo” di Ferraris è stato ed è molto influente.
Perché una teoria così visibilmente discutibile è diventata canone? Il problema di
fondo credo stia nel fatto che la filosofia ritiene di non essere una scienza normale.
Una soluzione potrebbe essere normalizzare la filosofia, e in questa
normalizzazione la questione del realismo (non nel senso ferrarisiano) potrebbe
svolgere un ruolo cruciale.

2 gennaio 2015

Analitici e Continentali: quali problemi si pongono le due tradizioni? Modi diversi (neopositivisti e neokantiani) di essere contro la metafisica





Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 2 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post aggiungo, in grassetto, il sommario del capitolo 2 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dal testo originale.
G.N.



I dibatti attuali sul realismo sono in gran parte frutto di complessi fraintendimenti, e sembrano aver dimenticato, non compreso o ignorato le domande a cui dovrebbero rispondere.
Alcune di queste domande le elenchiamo di seguito: le prime tre sono tipiche nelle tradizione analitica, le ultime tre nella tradizione continentale.
TRADIZIONE ANALITICA:
1 – abbiamo accesso alla realtà “in sé” o solo a ciò che ci viene testimoniato dalla nostra esperienza?
2 – i giudizi morali sono riconducibili a fatti e quindi sono considerabili come veri/falsi o sono invece solo modi per esprimere seriosamente ciò che desideriamo? 
3 – «la realtà ultima è ciò di cui ci parla la scienza o ciò di cui ci parla il senso comune?»
TRADIZIONE CONTINENTALE:
1 – le verità sulla realtà dovrebbero essere “complete” e “stabili”, mentre l’esperienza della realtà, da cui deriviamo le verità, è sempre “situata” e “storica”: su cosa basare, allora, gli asserti sulla realtà?
2 – «la nostra visione della realtà è data come tale o è costruita ideologicamente, ed è perciò storico-dinamica?»
3 – la struttura verità-realtà (c’è una realtà che può essere descritta con proposizioni vere), che costituisce l’impianto della metafisica classica, aristotelica, tradizionale, è «davvero l’unica possibile? non è forse espressione di un errore, o di una volontà di dominio, che attraversa la nostra cultura?»
Rispondendo alle prime tre domande con il primato dell’esperienza e della scienza (e con l’esclusione dell’accesso alla “realtà in sé” e l’esclusione dei giudizi morali dall’ambito del vero/falso) abbiamo la tipica posizione neopositivista di rifiuto della metafisica.
Rispondendo alle ultime tre domande con il primato della storia e con il “sospetto” verso la natura costituita-costruita della nostra esperienza della realtà abbiamo la tipica posizione neokantiana (in senso lato, comprendente fenomenologia, ermeneutica, “marxismo occidentale” e teoria critica) di rifiuto della metafisica.

La tradizione continentale, quindi, non è “anti-realistica”, bensì tendenzialmente anti-metafisica.


Cap. 2 – Giochi guastati
In un clima e in un contesto culturale antimetafisico (e latentemente
antifilosofico) le questioni di filosofia prima (verità, realtà, conoscenza, razionalità)
vengono perlopiù maltrattate, il che vuol dire: dissolte (sofisti), oppure trattate in
modo confuso o astutamente manipolatorio (falsi filosofi: gli allievi dei sofisti).
Indico i cinque principali dibattiti sul realismo nella filosofia analitica e altrettanti
dibattiti nella filosofia continentale. Faccio vedere che non c’è nessuno che
sostenga l’inesistenza della realtà, e le questioni in gioco sono per esempio il
verificazionismo, il primato della scienza o del senso comune nel dare conto della
realtà, il descrittivismo e l’anti-descrittivismo in filosofia del linguaggio, il senso e
la legittimità della metafisica.
Noto inoltre che gli aspetti più interessanti di tali dibattiti non figurano affatto
nelle discussioni recenti. La circostanza si spiega secondo me con le sfortune della
metafisica, e la manipolazione della sua recente rinascita da parte dei falsi filosofi.
La dominanza di un stile argomentativo basato su false dicotomie, strawmen,
evidenze soppresse, ha creato una generale stultificazione del realismo (da to
stultify, contraddire ma anche rendere stupido). E ciò proprio in un momento in cui
le questioni di filosofia prima (verità, realismo), sembrano essere di primario
interesse, anche etico e politico.