1 gennaio 2015

"Non ci sono fatti, solo interpretazioni": cosa voleva dire Nietzsche? Su alcuni aspetti della frattura Analitici vs Continentali





Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, del capitolo 1 di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini.
La sintesi non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post aggiungo, in grassetto, il sommario del capitolo 1 scritto dall'autrice (pubblicato nel blog Filosofia pubblica), che dà un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dal testo originale.
G.N.
Altri post che proseguono questa serie:
Il saggio originale, in versione integrale, in cui recensivo il libro della D'Agostini è scaricabile in questo post:


La famosa frase di Nietzsche “Non ci sono fatti, solo interpretazioni” è stata, ed è tuttora, spesso fraintesa. Il fraintendimento tipico è quello di intenderla come un’affermazione ontologica (sulla realtà, sull’essere), cioè intenderla come se dicesse “la realtà non esiste” (ma intesa così sarebbe insensata e autocontraddittoria). Altro errore tipico è quello di intenderla come formula riassuntiva dell’ermeneutica (la corrente filosofica che mette al centro dell’attenzione il tema dell’interpretazione e che trova espressione canonica nel pensiero di Gadamer, Ricoeur e Pareyson: ma nessuno di questi autori ha mai ripreso l’asserto nietzscheano). Sulla base di queste errate letture, si è a lungo polemizzato contro il presunto anti-realismo espresso in quella frase e contro l’ermeneutica come se fosse una scuola filosofica anti-realista, negatrice dell’esistenza del reale, a volte argomentando che i veri fatti a nostra disposizione sono i fatti non interpretati. Ma anche quest’ultima tesi è scorretta, perché nel momento in cui vogliamo utilizzare i fatti per sostenere una tesi o una teoria li dobbiamo necessariamente interpretare:

è semplicemente ovvio che tutti sempre e costantemente interpretiamo, anche gli scienziati duri e puri lo fanno, esattamente come tutti e sempre tocchiamo e sentiamo, e urtiamo contro fatti più o meno soffici.

Tutta la polemica si riduce a zero se ammettiamo che ci sono diversi tipi di fatti (cfr. § 9.), più o meno “duri” (cioè incontrovertibili, indiscutibili), e quando discutiamo perlopiù non parliamo di fatti, ma di interpretazioni, cioè descrizioni interessate di fatti: abbiamo degli interessi, nel descrivere la realtà, e questi interessi hanno un ruolo importante nel determinare le nostre ricostruzioni dei fatti, soprattutto quando discutiamo con altri che hanno interessi diversi dai nostri.
Fra i responsabili dei fraintendimenti della frase nietzscheana possiamo indicare due autori: Richard Rorty e Maurizio Ferraris. Rorty (filosofo americano) ha avuto il merito di segnalare ai filosofi di area anglo-americana la presenza di un problema importante nella filosofia contemporanea: la cesura tra filosofia “analitica” e filosofia “continentale”. Si trattava (e in parte si tratta ancor oggi) di una frattura fra due modi diversi di intendere la filosofia, che provocava un notevole dissesto nell’assetto complessivo della disciplina. La tradizione analitica (in lingua inglese) procedeva con stile rigoroso, attento alla chiarezza e alla validità logica delle argomentazioni, teneva conto dei risultati della scienza, ma era scettica rispetto agli usi pubblici della filosofia e tendeva alla specializzazione e alla chiusura nel mondo accademico. La tradizione continentale (in lingua francese, tedesca, italiana ecc.) aveva invece uno stile libero, attento all’efficacia retorica e alla semplificazione necessaria per misurarsi con i media, era interessata alla politica e alla vita pubblica ma era in generale avversa o indifferente verso la scienza. Rorty, con l’intento di mettere in comunicazione le due tradizioni, introdusse nell’ambiente analitico una ricostruzione sommaria dell’ermeneutica (una fra le correnti principali della tradizione continentale) rendendone involontariamente confusa l’immagine e dando luogo a una sostanziale incomprensione di quanto di buono contenesse. Contribuì in questo modo a determinare un dibattito falsato intorno alla presunta dicotomia fatti/interpretazioni.
Ma cosa intendeva veramente dire Nietzsche, quando scriveva “non ci sono fatti, solo interpretazioni”? L’affermazione va interpretata (!): contestualizzata, è espressione del nichilismo tardo-ottocentesco. Riassume la situazione in cui si trovava la cultura europea di quell’epoca: una progressiva democratizzazione che coincideva con uno sviluppo esplosivo delle scienze, sviluppo che significava specializzazione dei saperi e conseguente impossibilità di padroneggiare con una sintesi orientativa la realtà e la conoscenza; la formula sta quindi per qualcosa come: non è più possibile una visione unica, diretta, semplice e chiara della realtà, ma siamo costretti a fare i conti con una pluralità di prospettive, punti di vista, saperi diversi e contrastanti fra loro.
     Questa idea di Nietzsche venne poi ripresa e interpretata da Vattimo e Rovatti, che lanciarono nel 1983 il cosiddetto “pensiero debole”. Anche su questa posizione filosofica si è creato un fraintendimento, infatti la si è spesso interpretata come una posizione metafisica (anche qui un presunto anti-realismo contro cui polemizzare), mentre in realtà era una posizione metodologica o metateorica, interpretabile come una variante del falsificazionismo di Popper e riassumibile, semplificando molto, nella tesi secondo la quale quando discutiamo e ragioniamo dobbiamo ammettere sempre che la nostra posizione potrebbe essere rivista e migliorata. Anche questa tesi va compresa nel suo contesto. Si trattava della volontà di intervenire nella situazione di crisi delle politiche ispirate a ideologie forti (come il marxismo), crisi che corrispondeva, in Italia, all’avvio di politiche di compromesso contro le quali si scagliavano reazioni terroristiche; tale situazione veniva interpretata da alcuni filosofi (per esempio Gargani e Viano) come “crisi della ragione”, mentre Vattimo e Rovatti intendevano rilanciare la filosofia (la ragione) indebolendone però le pretese di accesso semplice, diretto e completo alla verità e alla realtà.


Cap. 1 – Fatti e interpretazioni, o fraintendimenti e falsificazioni?
La distinzione fatti/interpretazioni non ha alcun rilievo ontologico. Se serve a
qualcosa, serve a chiarire che quando si discute non si discute più di fatti-fatti, per
esempio il fatto che hai rubato dieci monete nelle tasche di Jones; ma di fatti-interpretazioni
(o ricostruzioni, o versioni dei fatti): per esempio il fatto che tu dici
che non l’hai rubate, e Jones invece ti accusa di averlo fatto. È dunque una
distinzione che ha un carattere meta-teorico, disciplina la discussione sulla realtà,
non è una teoria della realtà.
La confusione sul tema si deve al successo di uno stile rortyano (e
nietzscheano) in filosofia, la cui caratteristica primaria consiste nello scambiare
asserzioni metateoriche e metodologiche per asserzioni metafisiche (ma Rorty non
è stato l’unico responsabile), e su questa base creare finte polarizzazioni: es.
difensori dei fatti contro difensori delle interpretazioni (ovvio che entrambi
difendono cose che non sono contrapposte, né hanno alcun bisogno di venir difese).

1 commento:

king44 ha detto...

chiaro e utile, elimina gli appigli dei battibecchi che si sono verificati in anni recenti