9 settembre 2016

Il male esiste oggettivamente?







Il male esiste solo in quanto un soggetto lo sente, lo percepisce, lo vive.

Ma che un tale soggetto stia sentendo male è un fatto. Un fatto del tutto oggettivo.
Questo fatto, che un soggetto senta male, è un male? Molti altri soggetti, nell'assistere a questo fatto o nel venirne a conoscenza, sentono male a loro volta (un male diverso, forse meno intenso ma comunque molto chiaro e inequivocabile). E anche questo è un fatto, un fatto oggettivo. È anche un fatto che alcuni, nel percepire o sapere della sofferenza altrui, non sentono male. Ma in generale, credo e spero, sono numericamente inferiori.
Se è vero che sono più numerosi quelli che sentono male di fronte a un fatto di sofferenza rispetto a quelli che non sentono nulla (o lo sentono come un bene), allora è vero che fra il bene e il male è più forte il bene, allora è vero che il Bene può prevalere sul Male.

9 luglio 2016

Vittorio Del Tatto: L'evoluzione prima della vita. Dinamiche comuni del mondo organico e inorganico




Pubblico la "tesina" di Vittorio Del Tatto, studente che ha superato quest'anno l'Esame di Stato al liceo scientifico dell'Istituto d'Istruzione Superiore "Salvador Allende" di Milano con pieni voti e lode. Motivo di questa pubblicazione è il valore che ritengo abbia il suo lavoro, anche come esempio del livello di eccellenza che possono raggiungere gli studenti italiani delle scuole superiori.
    Sarà mia cura comunicare a Vittorio gli eventuali commenti, domande o richieste che attraverso il blog il suo testo susciterà nei lettori.

SCARICA QUI  la tesina

















La formazione dei polimeri biologici
Le molecole la cui formazione è stata maggiormente discussa sono sicuramente gli acidi nucleici e le proteine.
Nel caso degli acidi nucleici, il meccanismo che si è riuscito a individuare dopo molti anni di ipotesi è di una semplicità sconcertante. Nella formazione dei nucleotidi a partire da nucleosidi, formammide e minerali fosfato, si è osservato che molti prodotti erano sotto forma di isomeri ciclici, più stabili, se presi singolarmente, degli altri isomeri aperti. In particolare, si è notata una grande quantità di isomeri 3’,5’- monofosfati ciclici. Questi isomeri restano stabili se isolati, ma in presenza di altre copie uguali tendono a interagire tra di loro, prima formando una strutturazione ordinata e poi, in tempi più o meno brevi a seconda del calore esterno, favorendo una loro reazione di polimerizzazione, fino a produrre in modo del tutto abiotico le prime molecole di materiale genetico. Questo meccanismo è a tal punto spontaneo (il tutto avviene infatti per una semplice tensione verso una forma più stabile e meno reattiva) da essere stato definito di generazione spontanea.
Per spiegare la formazione delle proteine, catene di amminoacidi tenuti uniti da legami peptidici, sono state invece avanzate almeno due spiegazioni. La prima ricorre al ruolo già illustrato dei meteoriti: tra i tanti prodotti organici che si possono da essi ottenere vi sono anche una serie di agenti condensanti, ideali per la formazione del legame peptidico (che si forma appunto per condensazione, ovvero attraverso la liberazione di una molecola d’acqua). La seconda spiegazione pone invece al centro il vento solare che, come osservato nel 1999 durante una serie di esperimenti condotti nello spazio, sembrerebbe effettivamente in grado di formare legami peptidici tra alcune coppie di amminoacidi.
Ma perché i polimeri biologici sarebbero stati favoriti, alla lunga, rispetto ai monomeri? La risposta risiede in una semplice ragione di carattere termodinamico: i monomeri sono più instabili di quanto lo siano i polimeri. Una volta presenti nello stesso “brodo primordiale”, le molecole che sono “sopravvissute” più a lungo sono quelle che sono riuscite a legarsi tra loro in modo stabile. Poco importa se questi legami siano avvenuti in maniera del tutto spontanea, come nel caso degli acidi nucleici, o attraverso la mediazione di altre molecole, come nel caso delle proteine. Il risultato finale, infatti, è esattamente lo stesso:le molecole rimaste sono quelle darwinianamente più adatte. L’evoluzione in termini di adattamento e selezione naturale sarebbe dunque iniziata prima degli organismi: è un altro argomento che rende la distinzione tra il mondo organico e quello inorganico ancora più complessa.
L’evoluzione da molecole a cellule
Il passaggio chiave per la costituzione della cellula deve essere stata la costituzione delle membrane cellulari, necessarie per la non dispersione del materiale genetico e dunque per la distinzione di un ambiente self e di un ambiente non self. Le membrane delimitano un insieme circoscritto di strutture e reazioni i cui cambiamenti e adattamenti diventano così ereditabili. Tutte le membrane cellulari attuali sono costituite da un doppio strato di fosfolipidi, molecole anfipatiche dotate di una testa polare e dunque idrofila, cioè solubile in acqua, e delle code apolari costituite da acidi grassi idrofobici, cioè non solubili in acqua. Nel doppio strato le code sono sempre disposte verso la parte interna della membrana, mentre le teste sono disposte verso l’esterno (dato che sia l’ambiente esterno alla cellula sia quello interno sono generalmente ricchi di acqua).

 Nell’ambiente prebiotico, e in particolare nei mari, si ritiene che composti oleosi come i fosfolipidi fossero presenti in grande quantità. In soluzione si è osservato che questi composti formano spontaneamente una grande varietà di fasi aggregate, tra cui delle vescicole membranose a doppio strato, chiamate liposomi (figura a destra), che assomigliano molto alle cellule che conosciamo. In queste “bolle” si sarebbero potute introdurre le prime molecole organiche, libere di reagire tra di loro formando composti più complessi. In caso di dissoluzione della membrana, a causa di sollecitazioni meccaniche e del moto ondoso, le molecole avrebbero potuto riversarsi nell’ambiente esterno per poi essere catturate all’interno di nuove bolle in formazione.



Inoltre, l'acquisizione di una proteina all'interno del doppio strato fosfolipidico, fattore di maggiore stabilità della membrana, potrebbe aver offerto un vantaggio selettivo ad alcune bolle: le macromolecole in esse contenute avrebbero interagito per un periodo di tempo maggiore rispetto alle altre bolle, avendo dunque più possibilità di sintetizzare proteine e acidi nucleici più “adatti” all’ambiente. Anche la costituzione delle membrane cellulari, dunque, può essere spiegata come un meccanismo di generazione spontanea.

Il replicatore
Il discriminante tra ciò che intendiamo vita e ciò che per noi non lo è deve essere stata la formazione, in una grande varietà di reazioni messe in moto spontaneamente, di una molecola in grado di realizzare copie di se stessa: il replicatore. Si può pensare al replicatore come a una molecola le cui unità più semplici, disponibili in abbondanza nell’ambiente circostante, fossero dotate di una grande affinità per molecole uguali a sé stesse. Un’altra ipotesi è che ciascuna unità avesse affinità non per unità identiche a se stessa, ma in modo reciproco per unità di un particolare tipo diverso. In questo caso il replicatore avrebbe agito da stampo non per una copia identica ma per una specie di “negativo”, che a sua volta avrebbe ricreato la copia esatta del positivo originale. Poiché gli equivalenti moderni del primo replicatore – ovvero le molecole di DNA – usano una replicazione di questo tipo, in cui quattro nucleotidi si attraggono reciprocamente a coppie di due (adenina e timina formano due legami a idrogeno, mentre citosina e guanina ne formano tre), la seconda ipotesi è sicuramente la più plausibile.

La formazione del replicatore è un altro caso in cui è possibile parlare di meccanismi evolutivi darwiniani prima ancora che la vita si sia sviluppata. Infatti, se le spontanee sintesi prebiotiche hanno dato luogo alla formazione di decine di possibili composti purinici e pirimidinici simili tra loro e chimicamente imparentati, è soltanto la scelta delle proprietà di complementarietà e affinità reciproca il meccanismo che ha portato a costruire un mondo biologico codificato in A-T-C-G. Gli altri nucleotidi non avevano le caratteristiche giuste, forse anche di poco, e l’evoluzione li ha dimenticati.
La nascita del replicatore, inoltre, può aiutare a comprendere l’idea di emergenza. La capacità di duplicazione ci appare come una dinamica evolutiva nuova (in realtà ciò non è del tutto vero, dato che anche nel mondo inorganico esistono sistemi, come i cristalli, in grado di moltiplicarsi ripetutamente), ma secondo il principio di emergenza essa è in realtà il risultato di un particolare coordinamento di unità più semplici, i cui principi evolutivi, però, non variano in alcun modo. La capacità di replicazione, dunque, non è una proprietà in sé, che esula dalle dinamiche del resto della materia, ma è il prodotto di un particolare sistema in cui queste dinamiche operano.
L’ipotesi del mondo a RNA
Oggi si propende verso l’idea che il primo replicatore sia stato una molecola di RNA. Quest’idea è suffragata non solo dal fatto che l’RNA è effettivamente in grado di conservare l’informazione genetica al posto del DNA (si pensi, ad esempio, ai retrovirus), ma anche dall’osservazione delle sue notevoli capacità catalitiche: ancora oggi la formazione della struttura primaria delle proteine, all’interno dei ribosomi, è catalizzata da filamenti di RNA, i ribozimi. A ciò si aggiunge la recente scoperta di alcune sequenze di RNA,sintetizzate in laboratorio,dotate addirittura di proprietà autocatalitiche, ovvero in grado di duplicare se stesse. Tutte queste osservazioni inducono a pensare che l’RNA dovesse in origine ricoprire sia il ruolo che oggi possiedono gli enzimi proteici, sia la funzione dello stesso DNA.
Da RNA a DNA e proteine
La grande reattività dell’RNA, che avrebbe permesso di giungere casualmente al primo replicatore e di favorire la produzione di nuove molecole, ha però un lato negativo: l’instabilità. La chiave di questi due fattori è l’ossigeno nella posizione 2’ del ribosio (cioè lo zucchero presente nei nucleotidi dell’RNA), che porta a scindere e riformare legami con il fosforo, legato al carbonio in posizione 3’. Si vengono così a determinare autorotture, giunzioni con altre molecole, scambi di filamenti, e così via. Per questo motivo, il replicatore a RNA doveva compiere moltissimi errori nella copiatura di se stesso, e ciò è stato provato dai replicatori prodotti in laboratorio, in grado di replicarsi correttamente solo una volta su otto. Ciò permette di spiegare il passaggio da RNA a DNA in termini di stabilità acquisita: con la sola differenza di una base azotata (la timina al posto dell’uracile) e di un atomo in meno (cioè l’ossigeno che rende l’RNA così reattivo), il DNA risulta una molecola molto più stabile e meno attiva, dunque ben più adatta a conservare e trasmettere l’informazione ricevuta. Una spiegazione analoga vale per il passaggio da RNA a proteine: non solo più stabili, ma anche più specifiche e flessibili.

Le dinamiche comuni

Dai casi esemplificativi che si sono trattati è possibile individuare alcuni semplici principi che sembrerebbero valere allo stesso modo sia per l’evoluzione della materia organica sia per quella della materia inorganica:
  • Principio di stabilità
Qualsiasi mutamento è volto a raggiungere, in relazione all’ambiente in cui esso avviene, una condizione di maggiore stabilità. In altre parole ogni reazione avviene perché i prodotti risultano meno reattivi e soggetti a mutamenti rispetto ai reagenti: in ogni sistema soggetto a trasformazioni spontanee l’energia libera – che misura la capacità del sistema di compiere un lavoro –  subisce un decremento, fino al raggiungimento di una condizione di equilibrio. La legge darwiniana di “sopravvivenza del più adatto” potrebbe essere intesa come un caso speciale di una legge generale di sopravvivenza di ciò che è stabile, con la conseguente eliminazione (o riduzione in termini di quantità) di ciò che lo è meno. Una chiarissima sintesi di questo principio è data dalla parole di Victor Stenger, fisico e filosofo: «Qualcosa è uscito dal nulla perché era più stabile del nulla».
  • Dimensione storica dell’evoluzione
Le reazioni descritte dipendono dal principio di stabilità ma pur sempre in relazione all’ambiente in cui esse sono avvenute. Poiché l’ambiente cambia nel corso del tempo, sistemi nati perché più stabili di altri possono a loro volta divenire instabili, e dunque evolvere ulteriormente. Poiché sia l’ambiente cosmico sia quello terrestre hanno subito radicali cambiamenti nel corso del tempo, anche i corrispettivi stati di stabilità si sono evoluti: per questo motivo, reazioni avvenute un tempo non sono più attualmente osservabili. Da ciò deriva, in primo luogo, che la nozione di stabilità non è assoluta: ha senso parlare di sistemi stabili solo se si definiscono le condizioni in cui questi sistemi sono inseriti. Una seconda conseguenza di questo principio è che l’evoluzione, sia per la materia organica sia per quella inorganica, appare irreversibile: a meno che l’ambiente del passato non si ricomponga in tutte le sue variabili – il che è praticamente impossibile – le reazioni descritte non si verificheranno mai più spontaneamente.
  • Principio di direzionalità
Tutte le reazioni che si sono osservate vanno in un’unica direzione: dal semplice al complesso. Questo principio potrebbe sembrare in contraddizione con la seconda legge della termodinamica, perché potrebbe indurre a pensare a una tendenza verso l’ordine anziché verso il disordine. In realtà, il secondo principio della termodinamica dice solo che l’entropia di un sistema isolato tende ad aumentare nel tempo, ma non preclude la possibilità che in questo sistema si formino dei sottosistemi ordinati. Infatti, i prodotti delle reazioni illustrate sono in realtà dei sistemi aperti (in quanto coinvolti in continui scambi energetici con l’ambiente che li circonda), e il loro raggiungimento di una configurazione ordinata è sempre connessa a un’accelerazione entropica degli altri sottosistemi. Il raggiungimento locale dell’ordine implica un maggiore disordine altrove. Non a caso, molte delle reazioni illustrate sono esoergoniche, ovvero connesse a un rilascio di energia nell’ambiente.
Riflessioni conclusive

Dal parallelismo messo in luce si possono trarre delle importanti considerazioni, da intendersi più su un piano filosofico che prettamente biologico o fisico.

La continuità della materia
In primo luogo, la distinzione tra materia organica e inorganica potrebbe non essere così netta come la si intende comunemente. A sostegno di questa visione è utile riprendere il principio di chemiomimesi, secondo cui alcune vie metaboliche che osserviamo nelle cellule attuali sarebbero nate in un contesto del tutto abiotico, cioè in assenza di vita. Allo stesso, i meccanismi selettivi alla base dell’evoluzione darwiniana sono ormai attestati già nelle fasi precedenti all’origine della vita. La materia organica non sarebbe dunque diversa da quella inorganica, se non per un maggiore grado di complessità e varietà. Ma se la materia fosse effettivamente “continua”, cioè priva di distinzioni tra le sue parti (in quanto soggette alle stesse identiche leggi), come si può concepire in un quadro del genere l’esistenza della vita? O meglio, come si può pensare a un processo che dia il via a qualcosa di radicalmente nuovo e diverso, se il presupposto è che non vi sia stato alcun cambiamento profondo per garantire questa diversità? Si tratta di un problema irrisolto che crea non pochi dubbi: preso atto della continuità tra le dinamiche evolutive dei momenti immediatamente precedenti all’origine della vita e di quelli immediatamente successivi, una delle maggiori difficoltà sta proprio nell’individuare, nella catena di reazione chimiche che ancora si cerca di ricostruire, un limite netto tra vita e non vita.

Il problema della definizione di vita
Il problema è reso ancora più complesso dal fatto che, dopo più di duemila anni di riflessioni su questo tema, non esiste ancora una definizione di vita accettabile. Quella largamente accettata, proposta dalla NASA negli anni novanta, recita: “Life is a self-sustained chemical system capable of undergoing darwinian evolution” (la vita è un sistema chimico che si autosostiene in grado di essere sottoposto a evoluzione darwiniana). In realtà, ogni organismo vivente usa continuamente energia tratta in modo più o meno diretto dal Sole o dall’energia chimica di molecole formate altrove, provenienti al di fuori del sé vivente. Dire che la vita si auto sostenga, dunque, è piuttosto illogico. Inoltre, si è già visto come l’evoluzione darwiniana sembra essere iniziata prima della vita stessa. Esistono molte altre definizioni, ma ciascuna di esse insiste su alcune proprietà (ad esempio l’ordine, il metabolismo, la reazione a stimoli e la riproduzione) che si possono trovare in casi isolati anche nel mondo inorganico. E una sola eccezione, in questi casi, è sufficiente per mostrare l’infondatezza dell’intera definizione. Perché dunque risulta così difficile trovare una proprietà fisica specifica o un insieme di proprietà che separino nettamente i vivi dagli inanimati? Ferris Jabr propone una risposta molto controintuitiva: perché una proprietà simile non esiste. La vita potrebbe non essere una realtà concreta, ma piuttosto un concetto inventato dagli uomini, che avrebbero operato una suddivisione esistente solo nella loro mente. Non esiste una soglia passata la quale un insieme di atomi diventa improvvisamente vivo, e dunque non c'è alcuna distinzione categorica tra viventi e inanimati: se nonostante gli sforzi non si è riusciti a definire la vita, è perché forse non c’è mai stato nulla da definire. E’ una risposta che scardina le nostre credenze più radicate, ma gli argomenti a suo favore non sono pochi. In ogni caso, molti rifiutano questa risposta perché apparentemente costruita su un ragionamento sbagliato: se non si riesce a comprendere qualcosa, allora quel qualcosa non esiste. Ma quest’ultima considerazione non tiene conto del fatto che la vita è stata indagata in ogni sua minima parte, e le nostre conoscenze in questo campo sono oggi vastissime: non è dunque vero che la vita non è stata compresa, ma è più corretto dire che ciò che sappiamo di essa non combacia, da un punto di vista razionale, con l’idea che ne siamo fatti intuitivamente. Ma dobbiamo pur sempre tenere conto di un’eventualità, ovvero del fatto che la nostra conoscenza attuale possa non essere completa. La risposta più equilibrata, dunque, sembra essere quella di Carol Cleland, filosofa dell'Università del Colorado, secondo cui l'impulso di definire con precisione la vita sia sbagliato quanto negare la sua realtà fisica: «concludere che non vi è alcuna natura intrinseca della vita è altrettanto prematuro che definirla».

Il principio antropico
Al di là della dimensione speculativa, l’esistenza della vita ci appare come un dato empirico difficilmente scardinabile. Ha quindi senso partire da esso come se fosse un assioma e, tenendo conto della non distinzione netta tra materia organica e inorganica, trarne delle conseguenze senza arrivare a negarne l’esistenza.
L’accezione debole
Se lo sviluppo della materia organica è effettivamente soggetto alle stesse leggi che dominano il mondo inorganico, la vita può essere intesa non più come un unicum, una scintilla provvidenziale, ma come il proseguimento di dinamiche precedenti, radicate nel cosmo fin dalla sua origine. Non più un caso fortuito, inspiegabile e irripetibile, ma un processo probabile e naturale. In questo quadro, l’evoluzione darwiniana potrebbe essere considerata un caso specifico di una legge più generale alla base dei mutamenti di tutta la materia.
La concezione della vita in termini probabilistici ha la sua massima espressione in un principio formulato nel 1973 dal fisico australiano Brandon Carter, chiamato principio antropico. Nella sua enunciazione più semplice, esso appare di un’ovvietà sbalorditiva: “noi viviamo in un universo che di fatto permette la vita così come la conosciamo”. In realtà, il senso di ciò è tutt’altro che banale: in primo luogo, non si può intendere la vita come qualcosa le cui dinamiche esulino dal resto della materia. Inoltre, se effettivamente la vita esiste, ha senso pensare che la sua formazione sia stata più probabile della sua non formazione, così come quotidianamente osserviamo più avvenimenti comuni e “regolari” che casi fortuiti ed eccezionali. Si potrebbe dissentire da quest’idea per il semplice fatto che la nascita del replicatore, ovvero la prima molecola in grado di realizzare copie di se stessa, sembra il risultato di una combinazione molecolare a tal punto specifica, tra miliardi e miliardi di possibilità, da essere davvero un caso fortuito che si sarebbe potuto facilmente non verificare. In effetti, nei tempi e nelle misure che l’uomo è abituato a osservare, questo è sicuramente vero: si tratta di un evento altamente improbabile. Ma se si provano a immaginare i milioni (o miliardi) di anni che la natura ha avuto a disposizione e l’inquantificabile numero di molecole coinvolte, la questione cambia. È un concetto che Richard Dawkins, biologo britannico, esprime nella maniera più chiara possibile:
Nella vita di un uomo, cose che sono così improbabili possono essere considerate dal punto di vista pratico come impossibili. Questo spiega perché non vinceremo mai un mucchio di soldi al totocalcio. Ma nelle nostre stime umane di ciò che è probabile e di ciò che non lo è non siamo abituati a pensare in termini di centinaia di milioni di anni. Se giocassimo una schedina ogni settimana, per un centinaio di milioni di anni, faremmo probabilmente parecchi tredici.
Ma vi è un’altra possibile replica: la vita è apparsa sulla Terra, e il fatto che il nostro pianeta abbia una serie di parametri compatibili con lo sviluppo della vita non è affatto una cosa scontata e probabile. In effetti, se la Terra fosse solo il 5% più vicina gli oceani bollirebbero, se solo l’1% più lontana essi ghiaccerebbero. Lo stesso avverrebbe se la massa solare fosse di poco maggiore o minore. Inoltre, il nostro pianeta ha un’orbita intorno al Sole quasi circolare, con un’eccentricità minima (di solo il 2%), che sembra calcolata apposta per garantire un clima “vivibile”. Infatti un’eccentricità maggiore avrebbe comportato forti variazioni di distanza dal sole durante l’anno, per cui anche in questo caso nel momento di massima vicinanza (perielio) gli oceani sarebbero andati in ebollizione e in quello di massima lontananza (afelio) si sarebbero trasformati in immensi blocchi di ghiaccio. Ma bisogna osservare che non esiste solo la Terra: i pianeti della sola Via Lattea sono più di cento miliardi (se si fa una stima di un solo pianeta per stella) e il numero di galassie è inquantificabile. In uno spettro così ampio di possibilità, sarebbe strano se un pianeta con le caratteristiche della Terra non si fosse formato – non il contrario. Ciò è confermato dal fatto che le scoperte di esopianeti (cioè pianeti esterni al sistema solare) con caratteristiche simili alla Terra aumentano di anno in anno, e recenti studi stimano la presenza, nella nostra galassia, di circa 8,8 miliardi di pianeti analoghi al nostro.
L’accezione forte
Tutto ciò giustifica una formulazione del principio antropico ancora più “coraggiosa”. Non a caso si fa una distinzione tra il principio antropico debole, formulato nei termini già riportati e riconosciuto come valido da una buona parte della comunità scientifica, e il principio antropico forte, più controverso e discusso. Mentre l’accezione debole ha dei fondamenti razionali innegabili, la formulazione forte compie un “passo” non giustificabile da un punto di vista logico, e andrebbe dunque colta come una sorta di assunto metafisico, tanto suggestivo quanto non dimostrabile. Esso recita: “L’universo (e di conseguenza i parametri fondamentali che lo caratterizzano) deve essere tale da permettere alla vita di svilupparsi al suo interno a un certo punto della sua storia.”
In questa nuova concezione la vita non è più probabile ma necessaria, come se appartenesse alla trama stessa dell’universo: se essa non fosse una manifestazione obbligatoria delle proprietà combinatorie della materia, il suo naturale inizio sarebbe stato assolutamente impossibile. Il principio antropico forte è stato spesso criticato non solo perché lontano dalle nostre credenze più comuni, ma anche perché inteso in senso finalistico. Questa lettura, però, è sbagliata: il principio antropico forte non ci dice che la vita è un punto di arrivo (anche perché è davvero difficile pensare che prima o poi la vita non abbia fine), ma ci dice che essa è un passaggio inevitabile, così come lo è stato l’aggregazione di atomi per la formazione di corpi celesti e la costituzione, da parte di questi ultimi, delle galassie.
Ma parlare di necessità non sottrae alla vita la propria bellezza e unicità? Anche se molti ritengono di sì, il mio punto di vista è diametralmente opposto: credo che questa visione possa aiutarci a superare il nostro innato narcisismo per scoprire che la stessa bellezza e straordinarietà appartiene anche a tutto il resto.

Fonti

  • E. Di Mauro – R. Saladino, Dal Big Bang alla cellula madre – L’origine della vita, il Mulino, Bologna, 2016

  • R. Dawkins, Il gene egoista – La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Segrate (MI), 1976

  • https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=200068 (Consultato: 13 giugno 2016)

  • http://www.scienzagiovane.unibo.it/letture/big-bang.html (Consultato: 9 giugno 2016)

  • http://www.cattolicanews.it/studi-e-ricerche-energia-entropia-e-complessita (Consultato: 12 giugno 2016)

  • http://www.istanze.unibo.it/oscar/vita/vita01.htm (Consultato: 14 giugno 2016)

  • http://www.scienzaeconoscenza.it/articolo/che-cosa-sono-i-quark.php (Consultato: 9 giugno 2016)

  • https://it.zenit.org/articles/dal-big-bang-al-principio-antropico-una-straordinaria-storia-universale/ (Consultato: 15 giugno 2016)

25 giugno 2016

La filosofia: prese di posizione e aspirazioni all'oggettività. Lettera aperta a Franca D'Agostini







Rispondo alla lettera metafilosofica sull'idea di "filosofia come scienza" di Franca D'Agostini, sviluppando il suo discorso verso una caratterizzazione della filosofia come ricerca tesa fra l'aspirazione alla conoscenza oggettiva e la necessità di "prendere posizione" fra opzioni teoriche alternative.


Cara Franca,

sono io che ringrazio te, che trovi il tempo di scrivermi.
   Ritengo che se il tuo pensiero metafilosofico fosse stato maggiormente ascoltato e seguito le sorti della filosofia sarebbero state migliori. Nel chiuso è un libro che ho amato profondamente e l’importanza del tuo lavoro credo stia proprio negli sforzi che hai fatto, e continui a fare, per rendere la filosofia una scienza. Volendo fare un paragone illustre mi viene in mente Kant, che nello sforzo di rendere scientifica la metafisica ha scritto quel capolavoro che è la Critica della ragion pura.
    Tuttavia vorrei sollecitarti ancora con qualche riflessione ulteriore, prima commentando punto per punto la tua lettera, poi chiudendo con una sintesi del mio pensiero sulla questione del rapporto tra filosofia e scienza.

1. In effetti non vi sono dubbi sul fatto che la filosofia sia ‘scienza’ nel senso preliminare da te indicato. Ma quanto può servire ricordarlo? Nello stesso senso, infatti, sono scienze anche l’architettura, la musica… attività che normalmente si classificano fra le arti, in discorsi dove ‘arte’ e ‘scienza’ hanno significati più precisi.
    Noto però che questa caratterizzazione della filosofia come materia di studio e ricerca viene sottilmente ripresa più avanti, in 6.a (mescolata con una tesi più forte sull’essere la filosofia una scienza normale) e in 9. (ma anche qui un po’ confusa con la tesi più forte: in 9 parli anche della filosofia come scienza-studio…).
    È vero però che questa definizione serve come base per poter fare la distinzione importante che fai dopo, in 6.b-11., tra filosofia come studio-ricerca e filosofia come fatto antropologico.

2. La definizione che dai di ‘scienza’ in senso più specifico la correggerei leggermente. Focalizzare il tema dell’oggettività sull’aspetto della valutazione di tesi e teorie non ci aiuta, credo, perché non chiarisce la differenza tra scienza e arte: anche in arte le opere e le performance sono valutabili con una certa oggettività. Direi quindi piuttosto che la scienza è una conoscenza che tende all’oggettività, nel senso che tende alla verità e giustifica le sue tesi/teorie, e facendo ciò produce intorno a sé un accordo intersoggettivo. L’arte invece non tende di per sé all’oggettività, anzi direi che tende a valorizzare la soggettività (è una sorta di tacita norma, nel campo della produzione artistica – almeno a partire dal Rinascimento – che ciascun autore debba sforzarsi di esprimere la propria, originale, visione del mondo, basando quindi sulla propria individualità le scelte estetiche) ma viene poi valutata oggettivamente (per esempio nessuno, oggi, potrebbe ragionevolmente sostenere che la musica di Bach è priva di valore).
    Sulla base della tua definizione più specifica di scienza, dici poi: “In questo senso, la F forse non è una ‘scienza’ ma sarebbe augurabile che lo fosse”. Su questo, togliendo il ‘forse’, sono pienamente d’accordo e cercherò di sostenerlo con argomenti nella parte conclusiva. Ma questo è contraddetto da quanto dici più avanti, in particolare nel punto 6.a, (“credo che la F sia una scienza abbastanza ‘normale’ … non meno caratterizzata di altre scienze soft”). Riconosci poi (punto 7) in T. Williamson il difensore di tale tesi e rimandi al suo libro per quanto riguarda gli argomenti necessari a sostenere questa tesi sulla filosofia come scienza normale. Poco dopo (ancora 7.) torni invece alla tesi del punto 2., allontanandoti da 6.a, quando parli di “mancata normalizzazione della filosofia”.
    Insomma, mi pare ci sia nella tua posizione una certa oscillazione: a volte parli di filosofia=scienza come un qualcosa che è già o è di per sé, per essenza, per costituzione, a volte parli di filosofia=scienza come ciò che dovrebbe essere, come un qualcosa che non si è ancora realizzato. Io propendo nettamente per la seconda alternativa. E il motivo principale di questa mia propensione (ma credo di non essere il solo, anzi mi pare che sia la posizione più diffusa…)  è che la filosofia non ha mai raggiunto e non raggiunge, nelle sue parti più caratteristiche, l’accordo intersoggettivo.

3. Qui concordo con te, solo che chiarirei in questo modo: il fatto che arte, scienza, filosofia siano intersecate presuppone la loro distinzione. Dire che non sono sfere separate non va equivocato come se volesse dire che sono una cosa sola, un’unica sfera. Sono sfere distinte ma intersecate. Con questo chiarimento, però, la tua tesi 6.(a) è di nuovo smentita. Tu stessa sembri in parte smentirla quando dici “Che arte scienza e F si riferiscano ad attività metodologicamente diverse è ovvio…”.

4.-5. Qui critichi le posizioni di Casati, e non mi interessa entrare nel merito di queste critiche. L’unica cosa che non mi convince è quando interpreti ‘arte’ come “attività non normale, in quanto non soggetta a norme di alcun genere”. Credo che vi siano molte norme nel campo sia della produzione sia della fruizione artistica, e penso che il senso in cui Casati usa ‘arte’ in relazione alla filosofia sia quello che ho chiarito in 2., cioè l’arte come un’attività che valorizza la soggettività di chi la produce, o più semplicemente un’attività che non tende di per sé all’oggettività: non produce tesi o teorie.

6.-11. Su 6.a ho già detto sopra. Su 6.b-8.-9.(secondo paragrafo)-10.-11., cioè sulla filosofia come fatto antropologico, che richiede idealità e scetticismo, rimanda a Socrate ed è funzione della cittadinanza democratica, sono pienamente d’accordo. A questo si ricollega, se ho ben capito, la tua idea dell’insegnamento della logica nelle scuole primarie-secondarie. Quest’ultimo aspetto per me si è tradotto in un’avvenutra che ho iniziato quest’anno in una classe terza del liceo scientifico. Un’esperienza che mi ha dato molte soddisfazioni e mi ha appassionato, e vorrei provare a raccontarla, in altra sede, supportando il racconto con dati e riscontri quantitativi (i materiali didattici, le prove che ho somministrato, la valutazioni, i progressi degli studenti nel corso del tempo).
    Mi par di capire che sulla filosofia come fatto antropologico hai intenzione di approfondire in altra sede, quindi immagino tu ci stia lavorando sopra e mi aspetto, quindi, un tuo prossimo lavoro metafilosofico su questo tema. Sbaglio?

9. Sulla filosofia come studio (ma non scienza, per i motivi che sotto riassumo) dei fondamenti e trattazione dei super-concetti resto legato al fascino che questa tesi ha esercitato su di me all’epoca della lettura (e ri-lettura…) di Nel chiuso, e aggiungerei solo una maggiore accentuazione sull’aspetto problematico: la filosofia tratta i problemi fondamentali e affronta i problemi legati ai super-concetti.

Conclusioni
Penso in generale che la filosofia produca i suoi risultati migliori quando tende ad essere una scienza, cioè quando tende all’oggettività e di conseguenza tende a produrre accordo intersoggettivo. Ma non ci riesce mai fino in fondo. O meglio: quando ci riesce veramente, succede che una sua parte si “stacca” e diventa effettivamente una scienza. Questo, come tutti sanno, è successo con la fisica e tutte le scienze naturali, ed è successo anche con la psicologia, l’antropologia, le scienze umane in generale. E credo che questo stia succedendo adesso con la logica, o è in parte già successo.
    Il caso della fisica è esemplare. La fisica, che ha continuato a chiamarsi “filosofia naturale” fino a Newton, oggi nessuno si sognerebbe di considerarla parte della filosofia. Eppure, in un certo senso, la fisica è ancora filosofia, perché continua a porsi alcuni problemi fondamentali che la filosofia coltiva oggi in sede metafisica o ontologica (“Che cosa esiste?”, “È ciò che esiste spiegabile nella sua totalità?” ecc.).
    In un certo senso si potrebbe risolvere il problema considerando tutte, o quasi, le scienze come sottoinsiemi della filosofia, definendole come quelle parti della filosofia che sono riuscite a raggiungere un certo grado di oggettivtà. Resterebbero fuori la matematica, che ha avuto origine  prima della filosofia stessa, e la storia, che è nata nel V secolo a.C., poco dopo la filosofia, ma indipendentemente da essa, pur ispirata dallo stesso clima culturale.
    Il problema della filosofia, dalle sue origini ad oggi, è che nasce come forte aspirazione ad essere episteme ma non riesce ancora, e forse non riuscirà mai, in alcuni suoi nuclei fondamentali, a produrre conoscenze oggettive. Permangono fratture profonde in alcuni nuclei portanti della disciplina. I settori, o le discipline filosofiche, nei quali sono maggiormente evidenti i segni di questa mancanza di validità intersoggettiva sono innanzitutto metafisica/ontologia ed etica/politica. 
    Prendiamo solo un semplice esempio. Nell’ambito della tradizione analitica (che è quella dove la vocazione all’episteme è oggi più forte), se consideriamo il problema della possibilità, abbiamo otto teorie differenti: scetticismo, espressivismo, modalismo, realismo modale, ersatzsismo, finzionalismo, agnosticismo, disposizionalismo (vedi il libro di Andrea Borghini Che cos’è la possibilità, Carocci 2009). Un problema, otto soluzioni diverse. E non c’è modo di venirne a capo, perché in ultima istanza ci troviamo di fronte a opzioni teoriche ugualmente legittime; forse alcune appaiono più forti, altre più deboli, ma come possiamo sapere qual è quella vera? Ad esempio il realismo modale di Lewis è una posizione teorica fortemente originale, molto ben argomentata, ma poco condivisa.
    Osservo inoltre che la distinzione tra filosofia e scienza è presupposta, senza essere tematizzata, in buona parte della filosofia della scienza. Cito, come esempio, un passaggio del libro di Mauro Dorato Cosa c’entra l’anima con gli atomi? Introduzione alla filosofia della scienza (Laterza 2009, pag. 9): “Indipendentemente dal nostro atteggiamento verso di essa, la scienza e le sue applicazioni costituiscono parte integrante della nostra cultura. Il problema di stabilire come il sapere scientifico si dinstingua da altre tradizionali forme di ‘interpretazione del mondo’, quali quelle offerte dalla religione, dal mito, dall’arte, e dalla filosofia stessa, è un altro tema squisitamente filosofico, che non può essere affrontato da una singola scienza. Per cercare di risolvere tale importante problema limitandoci alla filosofia, è però necessario tenere un piede sia nella conoscenza scientifica sia in quella filosofica; come già accennato, la caratterizzazione del rapporto tra filosofia e scienza costituisce essa stessa un problema filosofico, le cui possibili soluzioni si spera saranno un po’ più chiare alla fine di questo libro.”
    Tornando alla questione centrale, quello che sostengo è che la filosofia, in quanto non riesce in alcune sue parti costitutive a raggiungere l’oggettività, resta almeno in parte legata alla soggettività dei suoi autori, e in questo senso vi è una parziale somiglianza con l’arte.
    Nella filosofia la presenza di questo elemento soggettivo non è certamente mai diventato norma, ma resta un dato di fatto caratterizzante. Spesso una posizione teorica, in filosofia, finisce per essere identificata con il suo autore.
   L’aspetto soggettivo della filosofia lo intendo in questo senso: di fronte a più opzioni teoriche ugualmente legittime (cioè razionalmente argomentate ma con argomenti diversi, che portano a tesi diverse) un autore “preferisce”, “sceglie” un’opzione piuttosto che altre, e poi va avanti a costruire in base a quella. Nello stesso modo in cui, di fronte alla scelta su come iniziare una partita a scacchi, un giocatore ha di fronte a sé alcune opzioni, con varianti e sotto-varianti, già molto studiate e approfondite (ci sono volumi e volumi di “teoria delle aperture”) e sceglie sulla base della propria propensione o simpatia verso il tipo di gioco che è previsto svilupparsi da quelle opzioni. (Avevo già proposto questa immagine in uno scritto sul mio blog, partendo dalla lettura del libro di Borghini sopra ricordato: https://giulionapoleoni.blogspot.it/2010/05/la-filosofia-come-esplorazione-delle.html)














8 giugno 2016

L'idea di "filosofia come scienza". Una lettera metafilosofica di Franca D'Agostini





Qualche tempo dopo aver letto il mio scritto Insegnare meglio la filosofia. Proposta di rinnovamento dei contenuti del corso di filosofia nei licei, Franca D'Agostini mi ha inviato una lettera nella quale sviluppa importanti riflessioni sullo statuto epistemologico della filosofia e più in generale su cosa sia la filosofia e su cosa significhi essere filosofi.
Le ho in seguito chiesto il permesso di pubblicare qui questa lettera ed ha gentilmente acconsentito.


Caro Giulio,

ti ringrazio per l’intelligenza e la cura con cui tratti le cose che scrivo: qualità rare in questi tempi vaghi e inveleniti. Il programma mi piace molto: come tu stesso dici, sono in parte idee su cui io stessa lavoro, in parte precisazioni e proposte che mi sembrano ineccepibili e importanti. 

Vorrei però precisare alcune cose, in particolare in relazione all’idea di «filosofia come scienza». 

1. Nel dire che la filosofia (F) è ‘una scienza’ intendo anzitutto ‘scienza’ in senso preliminare: una materia specifica di studio, insegnamento, ricerca. Che la F sia una scienza in questo senso penso che non vi siano molti dubbi: è un fatto. Che debba esserlo o meno, è un’altra questione. 

2. In un senso un po’ più specifico, una scienza è una attività intellettuale le cui tesi e teorie dovrebbero essere valutabili con una certa oggettività. In questo senso, la F forse non è una ‘scienza’ ma sarebbe augurabile che lo fosse. Sarebbe utile poter dire con qualche ragione ‘questa è buona F’, ‘questa non lo è’, oppure: ‘questa è una tesi F’, ‘questa non lo è’. Dovremmo poterlo dire, se no non si capisce di che cosa stiamo parlando. 

3. Da questo punto di vista però non penso che l’essere scienza della F escluda ogni elemento ‘artistico’. Anzi, smetterei di trattare arte-scienza-filosofia come fossero «sfere» separate (al modo weberiano, tardo-moderno): c’è dell’arte nella scienza e c’è della scienza nell’arte, e c’è filosofia in entrambe. Che arte scienza e F si riferiscano ad attività metodologicamente diverse è ovvio, ma dal punto di vista degli atteggiamenti intellettuali, il filosofico l’artistico e lo scientifico sono pervasivi: possono compenetrarsi a vicenda.
Lo ricordavo già in Nel chiuso, e tenderei a confermarlo oggi. Esattamente come parliamo di buona e vera scienza, allo stesso modo parliamo di buona arte e arte vera. Che non sia sempre facile discriminare… beh, questo è precisamente ciò che la F dovrebbe aiutarci a fare.

4. La Prima lezione di F di Roberto Casati è un ottimo libro, ma è un libro di divulgazione, dunque non lo tratterei come una vera e completa presa di posizione metafilosofica. Sarebbe ingiusto anzitutto nei confronti dell’autore, che probabilmente su ogni punto avrebbe altre cose da dire. Ciò posto, la definizione di F come «stipulazione concettuale» proposta da Casati credo sia ingegnosa e veritiera, ma è solo una parte – e neppure così rilevante – di ciò che si può ragionevolmente chiamare ‘F’. 

5. Anche io, come Casati, ritengo che la F in pratica sia stipulazione concettuale, e sia una pratica ‘diffusa’, ma occorre intendersi. È vero che i concetti sono ovunque, e ovunque possono suscitare problemi. È vero anche che tutti sono in grado di fornire analisi concettuali, più o meno buone. Dirò di più: non è affatto necessario prendere una laurea e un dottorato in F per farlo bene, e meglio di molti F professionali. 
Ma si vede bene con ciò che la nozione di ‘stipulazione concettuale’ non dice molto. Se davvero dobbiamo limitarci a questo, non si sa perché abbiamo dovuto creare così tanti settori disciplinari, riviste, apparati accademici detti ‘F’, per fare un lavoro che tutti sanno fare. E per di più un lavoro che è così poco caratterizzato, sul piano dei contenuti e delle tecniche, da dover essere concepito come ‘un’arte’ (se con questo si intende: un’attività non normale, in quanto non soggetta a norme di alcun genere). 

6. In verità ho altre idee al riguardo: 

(a) credo che la F sia una scienza abbastanza ‘normale’ – ossia una materia come molte altre, e non meno caratterizzata di altre scienze soft (anzi forse più caratterizzata di alcune di esse); 
(b) ‘la F’ non è solo una materia di studio (da esercitarsi in modo scientifico, o artistico, o in entrambi i modi): nella parola ‘F’ c’è qualcosa di più.  

7. La tesi (a) è stata difesa da Timothy Williamson (The Philosophy of Philosophy) con buone ragioni, e non ne direi molto di più. Aggiungerei soltanto che dalla mancata normalizzazione della filosofia provengono molti danni e disguidi dell’attuale gestione scientifica della F, in particolare (vedi il punto 2) il successo pubblico di ‘F’ che non hanno niente di F. Ne ho parlato di recente in Realismo? (cap. 3), e lascerei da parte la questione.

8. La tesi (b) invece va spiegata. Credo che con ‘F’ si intendano e debbano intendersi due cose: una scienza (nel senso indicato), o meglio: un vasto settore scientifico (che include epistemologia, logica, metafisica, etica, ecc.); e un’ipotesi antropologica, ossia un modo d’essere (di pensare, di comportarsi) degli esseri umani. 
Un conto dunque è studiare F e un altro essere F. Ci sono intersezioni, ma sono due proprietà distinte. Tutti idealmente possono essere F, senza grandissimo sforzo, mentre per studiare F bisogna faticare un po’. 

9. Quanto alla F come materia di studio ricerca insegnamento, la caratterizzazione di Nel chiuso per me funziona ancora abbastanza bene: la F è scienza-studio dei «fondamenti», che finisce per trattare soprattutto concetti fondamentali o primi o trascendentali o concetti di ordine superiore come: identità, unità, bene, verità, giustizia, ecc.
Quanto alla F come ipotesi antropologica, la questione può essere più complessa, ma in estrema sintesi direi che per ‘essere F’ bastano due requisiti: una certa dose di idealità (essere capaci di ‘trascendimento’ dunque di immaginare mondi-situazioni possibili che superino il qui e ora della coscienza empirica, e gli interessi individuali) e una buona dose di scetticismo (essere capaci di critica e autocritica, o ironia e autoironia). Avrai riconosciuto i requisiti socratici: non credo ci sia molto di più. 

10. È abbastanza chiaro che molti sono ‘F’ e tutti possono esserlo, se intendiamo ‘essere F’ non nel senso del sapere o poter fare analisi dei concetti, ma in un senso più forte e primario (socratico) dell’espressione. 
Naturalmente, chi si occupa ‘scientificamente’ di F (che secondo me, come credo sia chiaro, non si limita a stipulare definizioni concettuali così in generale e senza specificazioni), potrebbe non essere affatto ‘F’ in questo senso. Potrebbe essere del tutto privo di idealità e di (auto)ironia. Per quel che ne so, molti tra i F professionali che conosco sono manifestamente privi tanto dell’una quanto dell’altra qualità.

11. Delle ragioni per cui essere F secondo me sta diventando un fatto antropologico più che un’ipotesi o un ideale, non parlerò qui, perché credo che quanto ho detto già chiarisca il mio punto di vista rispetto ai problemi da te sollevati.

Grazie della tua attenzione. Per ora un saluto e buon lavoro F

4 aprile 2016

Salvare la Filosofia, salendo nel Castello in Aria...





"Una volta, tanto tempo fa, questo paese era una solitudine arida e spaventosa (...) Creature maligne vagavano a loro piacere per le campagne e scendevano fino al mare. Il nome del paese era Terra del Nulla.
Poi, un giorno, una piccola nave apparve sul Mare della Conoscenza. Aveva a bordo un giovane principe che cercava il futuro. In nome della bontà e della verità egli rivendicò l'intero paese (...) I demoni, i mostri e i giganti andarono su tutte le furie a causa di tanta presunzione e si unirono per scacciarlo. La battaglia che ne seguì fece tremare la terra, e quando si concluse la sola cosa che rimanesse al principe era un piccolo lembo di terra in riva al mare. - Fonderò qui la mia città - egli dichiarò, e così fece. (...) Ben presto non fu più semplicemente una città; diventò un regno ed ebbe il nome di regno della Saggezza. (...) Il re si ammogliò e, dopo non molto tempo, ebbe due bei figli (...) L'uno si recò a sud, fino ai Contrafforti della Confusione, e costruì Dizionopoli, la città delle parole; e l'altro si recò al nord, fino ai Monti dell'Ignoranza, e costruì Digitopoli, la città dei numeri. Entrambi i centri fiorirono moltissimo, e i demoni furono scacciati ancora più indietro. (...)
Ognuno cercava di superare l'altro, ed entrambi si impegnavano tanto e con tanto diligenza che di lì a non molto le loro città rivaleggiavano persino con Saggezza in vastità e grandiosità.
- Le parole sono più importanti della saggezza - disse uno dei due in privato.
- I numeri contano più della saggezza - pensò l'altro tra sé e sé.
E finirono con l'odiarsi a vicenda sempre più.
L'anziano re, però, che non sapeva niente dell'animosità dei suoi figli, era molto felice (...) Il suo solo dispiacere era di non aver mai avuto una figlia (...) Un giorno, mentre passeggiava tranquillo nei giardini, scoprì due minuscole creature che erano state abbandonate in una cesta sotto il pergolato dell'uva. Erano bellissime bambine dai capelli d'oro. (...)
- Chiameremo questa Rima e quest'altra Ragione - disse, e così le due bambine divennero la Principessa della Dolce Rima e la principessa della Pura Ragione e crebbero a palazzo.
Quando il vecchio re in ultimo morì, il regno venne diviso tra i suoi figli. (...)
Tutti amavano le principesse a causa della loro grande bellezza, dei modi affabili, e della capacità di appianare ogni controversia equamente e ragionevolmente. (...)
Man mano che gli anni passavano, i due fratelli si allontanarono sempre più uno dall'altro e i loro regni separati si fecero sempre più ricchi e più grandi. Le dispute che li dividevano divennero sempre più difficili a conciliarsi. (...) Discussero e disputarono e declamarono e si infuriarono finché non furono sul punto di venire alle mani, dopodiché si decise di sottoporre la questione all'arbitrato delle principesse.
- Parole e numeri hanno un ugual valore perché, nel mantello della conoscenza, le une sono l'ordito e gli altri la trama. (...)
Tutti furono soddisfatti del verdetto. Tutti, cioè, tranne i due fratelli, fuori di sé per l'ira. (...)
E così le due principesse furono condotte via da palazzo e mandate lontano nel Castello in Aria, e da allora nessuno le ha più viste. Ecco perché oggi, in tutto questo paese, non esistono né Rima né Ragione. (...) l'antica città di Saggezza è caduta in grande abbandono (...)
- Forse possiamo salvarle [le principesse] - disse Milo."

Questa storia è contenuta nel libro Il casello magico di Norton Juster, che lessi da bambino e che mi colpì profondamente.
C'è qualcosa che ancora mi fa molto pensare, in questa storia: ricorda la storia della crisi della filosofia, del nichilismo e della frattura fra Analitici e Continentali. Questo esilio forzato di Rima e Ragione, costrette nel Castello in Aria... e tutte le peripezie di Milo per liberarle, salendo infine nel Castello in Aria...
Occorre salire nel castello della metafisica, per recuperare e salvare Rima e Ragione (il Bene e la Verità, o anche l'Etica e la Logica...). Occorre riappropriarsi della Filosofia nella sua vocazione più profonda, quella di tenere insieme la conoscenza vera e l'agire morale, una sintesi dei saperi e una visione orientativa, scienza e arte-religione, teoria e prassi...

9 marzo 2016

L'azione umana e il libero arbitrio





Nel seguente brano di Kant, tratto dalla Critica della ragione pura, abbiamo una esposizione sintetica dei termini fondamentali nei quali ancora oggi si può porre la questione del libero arbitrio.

«(…) si prenda un’azione volontaria, per esempio una menzogna malvagia, con la quale un uomo abbia portato un certo scompiglio nella società, si indaghino in primo luogo i moventi da cui essa è nata, e poi si giudichi in che modo essa, insieme alle sue conseguenze possa essere imputata a quell’uomo. Per quanto riguarda il primo punto bisogna esaminare il carattere empirico di quell’uomo sino alle sue sorgenti, che vanno ricercate nella cattiva educazione, nelle cattive compagnie, in parte anche nella malvagità di un’indole insensibile alla vergogna, in parte vanno attribuite alla leggerezza e ala sconsideratezza, senza trascurare poi le cause occasionali concomitanti. In tutto ciò si procede come si fa in generale nella ricerca della serie delle cause determinanti di un effetto naturale dato. Ora, per quanto si creda che l’azione sia determinata, in questa maniera, nondimeno se ne biasima l’autore, e certo non a motivo della sua indole infelice, o per le circostanze che hanno influito su di lui, e addirittura neppure per la sua condotta passata. Infatti, si presuppone di poter tralasciare completamente il modo in cui egli si è comportato nel passato, di poter considerare come non accaduta la serie trascorsa delle condizioni, e di poter invece considerare questo atto come del tutto incondizionato rispetto allo stato precedente, come se il suo autore abbia iniziato in modo totalmente spontaneo una serie di conseguenze. Tale biasimo si fonda su una legge della ragione, per cui si considera la ragione una causa che, a prescindere da tutte le condizioni empiriche suddette, avrebbe potuto e dovuto determinare diversamente il comportamento dell’uomo.»

Possiamo considerare un'azione volontaria sia come effetto di una serie di cause determinanti, indagabili empiricamente, sia come frutto di una deliberazione ragionata? Forse il problema sorge proprio per questa doppia possibilità, per questi due punti di vista sulla stessa azione.
Allora porre la questione generale se il libero arbitrio appartenga o no alla natura umana significa chiedersi se l'uomo agisca prevalentemente in base a ragioni (ragionamenti, deliberazioni, valori, concetti) o in base a forze (impulsi, pulsioni, emozioni, desideri).

Forse si tratta di una mescolanza inestricabile di entrambi, ragioni e forze. Forse la ragione è una fra le forze in gioco. Ma se lo è si tratta di una forza che trae origine da una dimensione molto diversa da quella delle forze indagabili empiricamente, sembra sostenere Kant.

2 marzo 2016

Le famiglie co-parentali





Commentando l'articolo di Maria Novella De Luca "Omogenitorialità", uscito su la Repubblica il 20 marzo 2009 e ripubblicato su Nazione Indiana da Franco Buffoni il 23 marzo 2009, ho scritto :

Un’altra tipologia di famiglia omogenitoriale è quella che viene chiamata co-parentale (o co-parenting): una coppia lesbica e una coppia gay si incontrano e costruiscono il loro rapporto intorno al progetto di far nascere uno o più figli. All’interno di ciascuna coppia ci sarà un genitore biologico che sarà genitore a tutti gli effetti; la/il partner deciderà che peso dare al proprio ruolo co-genitoriale (non è detto quindi che il figlio cresca con l’idea di avere due mamme e due papà: potrà avere anche solo una mamma con la sua compagna e un papà col suo compagno). La gestione del figlio, pur separata, sarà improntata al reciproco sostegno fra le due coppie, alla complicità e alla solidarietà. E’ importante, per la buona riuscita, che le due coppie vivano il più possibile vicine, in modo da facilitare gli aspetti logistici, e che ci siano anche momenti di vita in comune allargata (a quattro).
Famiglie di questo tipo sono presenti in Famiglie Arcobaleno, anche se in percentuale molto bassa.
L’articolo non ne parla ma mi sembrava giusto segnalare che esiste anche questa variante, nel variegato mondo delle nuove famiglie.

Ad oggi, per quanto si sente nelle discussioni sui modelli di famiglia alternativi a quello tradizionale, questa realtà è ancora molto poco conosciuta. Molte riflessioni si potrebbero fare confrontando questo modello con altri, non ultima quella che forse si tratta, più che di una famiglia, di due nuclei famigliari che procedono in parallelo, nei quali i figli si trovano a vivere una situazione simile a quella dei figli di genitori separati, con la differenza che in questo caso la separazione non è mai avvenuta perché i due genitori biologici non sono mai stati una coppia e hanno un rapporto che si costruisce gradualmente intorno al processo di realizzazione della loro genitorialità: i figli sono quindi già solo per questo motivo posti fin da subito al centro dell'attenzione, verso di loro convergono gli interessi dei due nuclei.
Va aggiunto che il co-parenting si può realizzare anche in varianti: coppia di donne-uomo single (gay o etero), coppia di uomini-donna single (etero o lesbica), donna single-uomo single.
Dal punto di vista economico realizzare un modello come questo non costa nulla (si basa sulla tecnica dell'autoinseminazione), ma occorre essere molto attenti all'accordo fra i due nuclei per quanto riguarda la futura gestione economica dei figli. Se i figli verranno cresciuti in collocazione prevalente presso il nucleo famigliare materno (come in genere si verifica nel caso dei figli di genitori separati) la legge prevede che il padre dia un contributo economico mensile alla madre per il mantenimento.
Nel caso in cui, invece, la collocazione presso i due nuclei sia paritaria l'accordo economico può prevedere una gestione comune delle spese per il mantenimento dei figli.

Rimando infine alla pagina che il sito di Famiglie Arcobaleno dedica agli studi e ricerche sulle famiglie omogenitariali, ricchissima di indicazioni bibliografiche per chi voglia approfondire il tema in generale.